“Mi viene istintivamente di pensare a questo signore di Genova di 97 anni, reduce dalla campagna di Russia, che raccontava un episodio durante la ritirata dal Don a Nikolajewka quando erano rimasti in cinque amici e tra di loro fecero un patto che potremmo definire contro-natura: Decisero che se uno di loro fosse stato ferito gli altri non si sarebbero fermati a salvarlo come naturalmente ognuno di noi è portato a fare con un amico in una situazione di normalità…. Quello che mi colpisce in una storia è partire da una situazione estrema e disumana come questa per raccontare l’animo dell’uomo costretto a trasformarsi a seconda degli eventi…”
Le parole di Simone Cristicchi, che ho incontrato in occasione del debutto al Teatro Ambra alla Garbatella dove resterà fino al 10 aprile e che poi continuerà a portare in turnée attraversero tutta l’Italia, introducono bene lo spirito che pervade Li Romani in Russia, un testo teatrale anomalo, derivato da un poema in dialetto romanesco di un personaggio eclettico com’è stato Elia Marcelli, che fu poeta, scrittore, sceneggiatore e anche documentarista. Questo suo struggente e doloroso atto d’accusa contro la guerra, che parte dal racconto in prima persona di un soldato di un plotone della fanteria spedita al macello nell’infame e sanguinosa campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale, rivive oggi grazie all’adattamento teatrale di Marcello Teodonio, alla messa in scena di Alessandro Benvenuti e appunto nell’interpretazione di Simone Cristicchi.
Avevo avuto l’opportunità di vedere lo spettacolo nella sua anteprima “romana” al Teatro di Tor Bella Monaca lo scorso undici dicembre, incuriosito dal fatto che un cantautore pop un po’ di “frontiera” come Cristicchi, che ha sempre cercato di abbattere i confini rigidi tra i generi e i linguaggi per dare visibilità e riportare attenzione e riflessione su alcune grandi tematiche rimosse dalla coscienza collettiva (il Manicomio attraverso lo spettacolo C.I.M.- Centro di igiene mentale e le storie dei minatori attraverso il coro di Santa Fiora), si volesse cimentare con un linguaggio ancora diverso come la recitazione per di più su un testo così ostico da esprimere sia per quanto riguarda la forma che per quanto riguarda i contenuti. Del resto la messa in scena essenziale e rigorosa di Benvenuti, partendo dalla necessità del testo, si concentra sul sottolineare la forza della parola e della presenza umana dell’interprete, avvolto in un disegno di luci oscillanti tra un buio che inghiotte e squarci bianchi del deserto di neve degli infiniti, sia nello spazio che nel tempo, inverni russi. Tutto questo crea una suggestione evocativa, una tensione, un silenzio “altro” dove le parole conquistano spazio, escono fuori dalla scena, rimbombano dentro il teatro e toccano non solo il centro dell’emozione ma anche l’indignazione etica e morale rispetto ad un’impresa dettata dalle ambizioni megalomani e feroci della dittatura mussoliniana e dalla meschina ottusità e scellerataggine di Vittorio Emanuele III.
“Mi piace partire dal piccolo, questi soldati che partono per la Russia sono un plotone di ragazzi di borgata come potrebbero essere i ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, provenienti da quartieri come Borgo Pio, la Cecchignola, la Tiburtina, che sono appunto zone limitrofe e non centrali, proprio perché io concepisco la memoria come un collage di storie individuali e non come un concetto universale”
Attraverso questa chiave di lettura emersa nella conversazione con Simone, è possibile accogliere la sua interpretazione e, come in un immaginario domino al contrario, rileggere tutte le scelte estetiche e drammaturgiche dello spettacolo fino a risalire alla poesia del Marcelli, a quel dialetto romanesco che in ogni parola, ogni espressione, ogni pausa e scansione metrica tratteggia un carattere, una personalità, un modo di essere che è unico e irripetibile e su cui sono impressi i segni, le impronte digitali di un’umanità alla quale, oltre le epoche e le generazioni, tutti siamo chiamati ad appartenere. Così per una volta il minimalismo della rappresentazione, quell’atteggiamento, per intenderci, di cui tante volte accusiamo il cinema italiano che riflette sul presente senza aperture e senza picchi, diventa funzionale a condurre il racconto piccolo, intimo, dal basso, di un soldato a cui Cristicchi, specialmente nella prima parte del monologo, la partenza carica delle aspettative montate dalla propaganda e dall’ingenuo senso di smarrimento e confusione dei ragazzi schiacciati dall’insensata retorica militarista, regala effettivamente la purezza e la dolcezza di un personaggio pasoliniano, ricordando anche a livello iconografico per via della sua caratteristica capigliatura, lo spirito del “riccetto” Ninetto Davoli de La sequenza del fiore di carta.
Quel personaggio, alla cui figura felice e spensierata venivano sovrapposte immagini di guerra e di dolore, era condannato a morte da un Dio incapace di tollerarne l’inconsapevolezza rispetto al mondo che lo circonda. La morte dell’innocenza, della purezza, della giovinezza, un senso di cui è permeato tutto il testo di Marcelli e tutta la performance di Cristicchi, che rende con una precisione e una necessità, dove si manifesta la sensibilità del musicista, i cambi di ritmo e di colore di un personaggio ora buffo e ora tenero, ora arrabbiato e ora disperato, nella cui voce convogliano le voci dei suoi compagni di sventura man mano che la tragedia da individuale diventa collettiva e che gli occhi, che il Riccetto di Pasolini voleva tenere chiusi schernendo il male con il suo fiore di carta, sono costretti a spalancarsi e a guardare non la meraviglia del mondo ma la sua allucinata deriva. Ed emergono altre figure memorabili, come quelle di una pietosa donna russa che soccorre quel plotone di ragazzi affamati e assetati perche si continua ad essere madri anche tra la disumanità e l’odio, degne di essere accostate alla migliore stagione del cinema italiano che ha riflettuto sui piccoli protagonisti delle Grandi Guerre (penso in particolare a Italiani Brava Gente di Giuseppe De Santis proprio sulla campagna di Russia).
“Molti reduci si sentono in colpa rispetto ai loro compagni e fratelli che non ce l’hanno fatta e questo senso di colpa secondo me non ti abbandona mai fin quando vivi….”
E nel raccontarci la metamorfosi di un ragazzetto di periferia in un soldato costretto ad uccidere altri ragazzetti di altre periferie di un altro impero e poi in uomo brutalmente spogliato di qualsiasi dignità umana nel corpo come nelle psiche e nel cuore, Simone Cristicchi, un ragazzo nato nel 1977, ci fa capire quanto il senso di colpa di quel singolo soldato sia la conseguenza malata di un mondo impazzito, di una deriva esistenziale che poi diventa anche culturale e politica, un pericolo costante nel tempo perché così legato alla natura dell‘animo umano. Gli sono grato per non avermi fatto guardare a quelle storie e a quella Storia come a una moralistica lezione da libro illustrato, ma come a una vibrante, autentica, terribile riflessione sul nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.