[*** ½] Una filmografia esile, esigua, appena 5 film in 15 anni. Eppure Lee Chang-dong è uno dei registi più importanti del panorama sudcoreano, padre, protagonista e Ministro del rinnovamento di un'industria cinematografica, quella della Corea del Sud, a sua volta tra le più studiate e chiacchierate dell'estremo Oriente. Esplosa sul finire degli anni Novanta, circuitata nei festival internazionali e distribuita world wide come un farmaco miracoloso, fino al 2007, l'ultimo film Yin e Yang passato sugli schermi italiani è stato Soffio di Kim Ki-duk. Dopo, per lo meno in Italia, un silenzio assordante, fine della fiera, riflettori spenti, senza eccezioni. Tolleranza zero: l'osannato autore della Trilogia della Vendetta, Park Chan-Wook (Mr. Vendetta, Old boy, Lady Vendetta), quello del cinema "che non deve solo uccidere, deve anche essere bello", ignorato; l'ironico, l’irridente, l’istrionico Bong Joon-ho (The Host, Mother, Memories of murder, Barking dogs never bites), snobbato (ma il Korea Film Fest di Firenze gli sta dedicando, proprio in questi giorni, una retrospettiva monografica completa); l'anarchico e autarchico Kim Ki-duk (Ferro 3, La samaritana, Primavera, Estate……, Time) affondato al largo dei bastioni di Cannes e Venezia.
Grazie alle teste (di ponte) pensanti del Centro Espressioni Cinematografiche di Udine (Far East Film Fest) e a quelle di Cinemazero di Pordenone, unite nella neonata Tucker Film, con Poetry si riapre la finestra italiana sull'immaginario sudcoreano. Un’uscita in 30 copie, su tutto il territorio nazionale.
Appunti di una rentrée: la prima cosa che si nota è che nei press book non si parla più di New Korean Cinema, non si cercano più appartenenze, eredità e filiazioni. Indipendentemente dai capricci dei distributori nazionali, il cinema coreano è ormai una realtà che non necessita più di meta-spiegazioni: egli c’è, esiste, anche in absentia. Oggi, gli enormi capitali accumulati negli anni del boom sono magari, forse, investiti in pellicole più omologate, sicure, lasciando alle apposite strutture assistenziali il compito di aiutare il cinema indipendente, l’art film come dicono i tecnici. La seconda: anche per i maestri orientali vale la vecchia e vincente massima autoriale: "fare sempre lo stesso film". La poesia evocata da Lee Chang-dong è un luogo significante, un oggetto del desiderio perduto, nuovamente invocato, inseguito, ma infine irraggiungibile. Esattamente come le caramelle di Peppermint candy erano il luogo di un’innocenza irripetibile agli occhi di un poliziotto, o, peggio, di un torturatore, dell'ex regime militare; esattamente come l'oasi metaforica di Oasis era il luogo agognato di un’irrealizzabile purezza di sentimenti per due corpi traumatizzati dalle rispettive disabilità fisiche e mentali. Così, Mija si è sempre sentita una poetessa perchè, dice, “mi piacciono i fiori e molto spesso dico cose strane”.
Idee semplici, ingenue, attraverso le quali è difficile, anzi impossibile, accedere al presente problematico di un nipote, adolescente superficiale, con il quale vive e del quale deve prendersi cura, fargli da madre. Idee, voglie, urgenze che nascondono una mancanza, un vuoto, una nostalgia: dell’infanzia, degli affetti, di odori e di paesaggi cancellati dal tempo. Insomma, Mija è un’altra generazione. La resa dei conti morali si avvicina: bisognerà tirare una linea, fare delle scelte, assumersi delle responsabilità. All’anziana e gentile Mija di Poetry capiterà di doversi confrontare con altri genitori su cosa sia meglio fare per salvare il futuro dei loro ragazzi, sprofondati nell’indolenza, nella violenza come diversivo alla noia, nel silenzio. Nel gruppo di adulti ci sono cinque uomini e una donna, cinque genitori e una nonna: gli uomini si muovono secondo valori convenzionali, direi “tradizionali”, rispetto delle gerarchie, predominio dell'apparire sull'essere. Mija, con i suoi vestiti colorati e la sua grazia, saprà tirare fuori e affermare la propria femminile sensibilità, saprà scegliere un percorso di conoscenza e, attraverso la contemplazione della bellezza, arriverà a disubbidire, a ribellarsi. La soggettività dell’essere che sconfigge la dittatura dell’apparire. Lungo questo percorso, tra le altre cose, la protagonista incontra quella parte della società coreana convertita al cristianesimo. Tra scelte di Misericordia, atti di Compassione e sensi di Colpa, l’ispirazione poetica la porterà molto oltre il semplice saper scrivere e declamare dei bei versi. Poetry, poesia, è un titolo altisonante, ambizioso, rischioso. Immaginiamo una poesia che si chiami "film": sicuramente esiste, ma, come direbbe Godard, "un film è un film” e quindi “una poesia è una poesia". Inconciliabili. La poesia che Lee Chang-dong mette in scena, quella dei laboratori di scrittura, quella dei reading nei club dei “poem lovers”, quella dell’osservazione oziosa e scientifica di una mela, è in realtà il cadavere putrefatto del sentire e del vivere poeticamente. Il personaggio di Mija, graziosa sessantaseienne affetta da un principio di Alzheimer, interpretata da un’attrice storica del cinema coreano al ritorno sulle scene dopo sedici anni di inattività, scoprirà a caro prezzo che non esiste ispirazione senza espiazione, che non esiste scrittura senza annientamento, senza dolore.
Già nel precedente Secret sunshine, il regista ed ex Ministro della cultura coreana, sorta di Andrè Malraux di Seul, aveva cominciato ad insinuare la necessità di una fideistica bellezza interiore come unico spazio vitale, creativo, per l’uomo e la donna contemporanei. Dopo aver delicatamente indagato il disfacimento della mascolinità e della virilità classiche in Green fish e Peppermint candy; dopo aver descritto, in Oasis, le possibilità di relazioni altre, diverse, negli ultimi due lavori la scrittura di Lee, letterato di formazione, cineasta per mestiere, ha cominciato a porsi interrogativi morali, a mettere i soggetti delle proprie storie di fronte al dramma di essere, ad un tempo, testimoni e giudici delle proprie scelte. Non a caso, in conferenza stampa, il regista ha affermato di essersi ispirato ai Morality Plays medievali, brevi drammi teatrali a carattere didattico/religioso, nei quali gli attori, cioè i singoli, sono posti di fronte a dilemmi morali i cui svolgimenti non sono privi di ricadute sul contesto sociale.
Il film ha un percorso circolare, si apre e si chiude sull’eterno scorrere delle acque del fiume Han. Per oltre due ore, Lee osserva il personaggio di Mija cercare la bellezza nei fiori, nel vento, nei raggi del sole. La poesia non è tanto nelle immagini, quanto nella rispettosa, leggera e delicata discrezione della macchina d
a presa. Sarà solo calandosi nell’orrore della verità che Mija arriverà a comporre i suoi primi e unici versi. Grazie al suo sacrificio, lo spettatore, negli ultimi minuti del film, godrà delle immagini e delle parole di un toccante poema visivo, vera “poetry” di Poetry, una sequenza che per spessore emotivo mi ha ricordato un’altra sequenza finale lirica, girata da un altro Lee, lo Spike de La venticinquesima ora. Un finale apertissimo che chiude la morality play di Mija e apre la nostra.
Poetry è quel tipo di film quasi necessario, fisiologico, per un cinema contemporaneo bravo solo a brutalizzare sensi e sensazioni, ma incapace di fermarsi, fissare, osservare. Soprattutto all’interno di un panorama, quello del cinema sudcoreano, nel quale la maggiore spinta all’espressione, alla creazione, mi pare rimanga ancora il sentimento della Vendetta, della Rivalsa (vedere The Housemaid di Im Sang-soo in uscita a fine mese per credere), Poetry è un gradito invito ad “un corpo pulito che renda la mente pulita”.