In occasione della proiezione di Due pezzi di pane (lunedì 2 luglio ore 21, arena Detour c/o Pigneto Spazio Aperto, Via Ettore Fieramosca 20, ingresso libero) riproponiamo l'intervista a Francesco Torelli, produttore e amico personale di Sergio Citti.
Francesco Torelli è un amico personale del regista, un estimatore e un produttore del cinema di Sergio Citti. Lo abbiamo incontrato nella sua casa romana, in occasione delle serate di "Storie scellerate: il cinema di Sergio Citti" in programma per questo fine settimana al cinema Detour di Roma. Ci siamo fatti raccontare chi fosse nella vita e sul set l'ultimo cantore delle borgate e dell'umanità romana.
Quando hai incontrato per la prima volta il cinema di Sergio Citti?
Ho avuto fortuna perché mia sorella, Cristina Torelli, è stata la persona che, insieme ad alcuni amici, ha fondato il secondo cineclub di Roma: il primo fu il Filmstudio di Trastevere, il secondo fu l’Officina Film Club di Via Benaco, al quartiere Trieste. Loro organizzavano rassegne, io volevo andare oltre e fare i film. Grazie a Cristina e ai suoi amici, con i quali collaboravo facendo un po’ di tutto, già alla fine degli anni Settanta proiettavamo i film nei luoghi dove erano stati girati. Nell’Ottanta, a Castelporziano, sulle dune, facemmo Casotto. Vennero Sergio e Franco Citti, personaggi che per me erano quasi divinità. Per Franco ho avuto un timore reverenziale fino a pochi anni fa. Vidi il film, che non avevo ancora visto, insieme a due amiche tedesche che non parlavano una sola parola di italiano: risero tutto il film, fino alle lacrime. Pensai “questo è un genio”, uno deve avere qualcosa che passa oltre per riuscire a far ridere solo con le immagini.
Quando sei diventato amico e produttore del Citti regista?
Sergio lo rivedo anni dopo ad un premio Solinas e lui mi racconta che dopo Mortacci non riusciva più a fare film. Mi racconta anche la storia de I magi randagi. Sono diventato produttore per indignazione, come anche sono diventato distributore per indignazione, perché certe cose vanno fatte.
Tu un giovane produttore e lui un uomo di cinema: si è mai approfittato di te?
Con Sergio ci siamo frequentati per dieci anni, io come potevo cercavo di dargli una mano. Sicuramente, da un certo punto di vista, ero il pollo da spennare. Ma questo lo sapevo benissimo. Sapevo benissimo che gli amici di Sergio erano quelli precedenti la morte di Pasolini. Dopo, aveva rapporti professionali, di stima, di cordialità, ma gli amici veri erano un’altra cosa; gli sembrava di tradire Pasolini a farsi una nuova amicizia. A me mi usava anche come bancomat. Franco quando venne a girare lasciò due milioni di vecchie lire di conto al bar, in caffè, bottiglie e roba varia.
Cosa sono I magi randagi?
I magi randagi era un progetto di Pasolini elaborato insieme alle favole ideocomiche, cioè La terra vista dalla Luna e Che cosa sono le nuvole. In quest'ultimo, anzi, c'è una scena, quando Domenico Modugno – il monnezzaro porta fuori le marionette e canta la canzone con i versi di Shakespeare tradotti da Pasolini stesso (“tutto il mio folle amore lo porta il vento”, ndr), in cui si vedono affisse su un muro le locandine di due film, La terra vista dalla Luna, film che Pasolini girerà un anno dopo, e Le avventure del re magio randagio, che doveva fare sempre con Ninetto Davoli e Totò, se non che Totò morì e il progetto fu sospeso. Fu poi riadattato per Eduardo, perché Pasolini quando pensava all’italiano pensava al napoletano, il napoletano come sacca irriducibile di resistenza alla modernità, come elogio ad un universo dove sopravviveva il sottoproletariato, come sacca di spiritualità inattaccabile. Per questo quando con Sergio abbiamo dovuto cercare l’attore italiano de I magi randagi cercavamo un napoletano. Lui inizialmente pensavo ad un trio formato da un italiano, un russo e un americano, dopo l’abbiamo modificato in chiave europea e si pensava a tre grandi vecchi. Quando intervistammo, per la parte del francese, Philippe Noiret, dopo aver letto il copione, ci venne fatto notare che un film dove tre vecchi prendono legnate dall’inizio alla fine poteva risultare patetico. Effettivamente aveva ragione: e allora iniziammo a cercare attori più giovani. Andammo da Troisi, ma già stava male e faticava a finire Il postino. Io intanto avevo visto Matilda (di Antonietta de Lillo e Giorgio Magliulo, 1990, ndr) ed ero rimasto folgorato da Silvio Orlando e mi ero segnato il suo nome. Portai Sergio a vedere delle cose, poi quando uscì Il portaborse non ebbe più dubbi. Li feci incontrare e si piacquero subito.
Hai ricevuto critiche di tipo diciamo “cattolico”?
Sergio era stato in riformatorio, perché vivendo sulla strada è inevitabile che qualcosa la combini e qualcuno ti prenda, e aveva conosciuto da ragazzino, insieme Franco, un gesuita, un certo Agostino Casaroli che poi fu Segretario di Stato Vaticano per undici anni, nonché artefice della Ostpolitik, con Giovanni Paolo II. Era un potentissimo. Io ho visto I magi randagi con Casaroli al Pontificio Istituto Cinematografico e sudavo freddo lungo la schiena. Quando c’è la scena del Dio, che era Nanni Tamma in doppio petto, ho pensato “adesso si girano e mi maledicono”. Lui invece rideva, perché era una persona molto aperta ed un prelato polacco che era andato un po’ in escandescenza per questa visione quasi blasfema fu tacitato con una frase in polacco. Fu un’esperienza incredibile: andare in Vaticano con lui, camminare al suo fianco, vedere la gente che si inchinava per terra a baciare il lembo più basso della sua veste mentre lui gli dava una pacca sulla testa; era come entrare di colpo nel Medioevo. Era un’autorità riconosciuta e rispettata.
Ne I magi randagi la famiglia di Pasolini è riunita al completo: Franco Citti, Ninetto Davoli, Laura Betti, perfino Mario Cipriani, lo Stracci de La ricotta.
Là è l’omaggio a Pasolini, nel luogo in cui è stato assassinato. Mario Cipriani, che Sergio chiamava “er cipolla”, è stato un colpo di fortuna perché lo cercavo da giorni e nessuno sapeva dove fosse finito. Poi il giorno prima delle riprese mi chiamano per prenotarmi la sala AVID e parlando scopro che dovevano montare un film su Cipriani. Gli ho detto “se mi dai il telefono der cipolla ti do la sala gratis”. Anche le comparse, i baraccati, sono gli stessi pescatori che abitavano all’idroscalo, gli stessi che la notte dell’omicidio di Pasolini hanno assistito al pestaggio e che dissero a Sergio “l’hanno menato per più di mezz’ora”. Sergio nel 1975 viveva già a Fiumicino, fu avvisato e arrivò all’Idroscalo che ancora c’era il corpo di Pier Paolo a terra. Si informò, raccolse le testimonianze di tutti, vide che il sangue di Pasolini era sparso nel raggio di trecento metri e quando lesse la deposizione di Pelosi capì che erano tutte falsità. Chiese agli abitanti dell’idroscalo di testimoniare, ma erano tutti pregiudicati e visto cosa avevano fatto ad un personagg
io come Pasolini nessuno ebbe il coraggio di parlare. Sergio ci rimase malissimo. In punto di morte aveva due pensieri fissi: I magi randagi e il filmato girato in pellicola il mattino dopo l’omicidio, che io ho dato all’avvocato Marazzita. Con l’ultimo telecinema che abbiamo fatto a Cinecittà, togliendo la dominante viola che c’era nelle zoomate girate da Sergio, sono riapparse chiaramente le macchie di sangue raggrumato sull’erba verde dell’idroscalo.
Sergio non voleva che la morte di Pasolini passasse alla storia come un omicidio maturato in ambito omosessuale. Era convinto che c’entrasse il furto dei negativi di Salò. Per questi ci fu una trattativa tra un certo Sergio della Banda della Magliana e Sergio e Pier Paolo. Chiesero un miliardo di riscatto, ma Grimaldi, il produttore, calcolò che con cinquanta milioni poteva ricostruire il film a partire dagli scarti, dalle seconde buone e dagli internegativi. Per cui al massimo era disposto a pagare cinquanta milioni. La trattativa si arenò, la copia fu ricostruita da Ugo De Rossi, montatore allievo di Nino Baragli. La qualità di Salò infatti non è eccelsa nonostante il grande lavoro sulla fotografia. La mattina del 1 novembre '75 Sergio chiamò Pasolini, che era appena tornato dalla Svezia dove aveva presentato la traduzione di un suo libro di poesie, per decidere quando si sarebbero visti. Dovevano lavorare alla sceneggiatura di Cercando la stella ovvero la versione per Eduardo de I magi randagi. Pasolini gli disse che la sera non poteva perché si doveva incontrare con delle persone di borgata che gli avrebbero ridato i negativi di Salò, gratis, perchè a lui in borgata gli volevano bene. E invece era una trappola.
Si inizia a parlare di Sergio Citti e si finisce a parlare di Pasolini: Sergio ne soffriva?
Si, a volte diceva “madonna mia”, ma sapeva troppo bene che doveva tutto a Pier Paolo, come Pier Paolo doveva molto a lui. E poi erano legati da un vero amore, un amore sconfinato. All’inizio, quando l’ho conosciuto, nel 1988, provava un profondo dolore per la perdita dell’amico e quasi non ne voleva parlare, bisognava tirargli fuori le cose con la forza perché io volevo sapere il più possibile. Lui era restio, aveva un ricordo nitido e intenso e non voleva sbiadirlo con i racconti. Alla fine, invece, con me, si apriva completamente.
Quanti film hai prodotto per lui?
Solo I magi randagi. Dopo il buon esito del film una persona gli ha messo in mano un assegno di dieci milioni e gli ha fatto firmare un’esclusiva. In un momento in cui padre Fantuzzi era in commissione al Ministero e avremmo potuto presentare progetti ambiziosi, fare le cose con mezzi, supportati dallo Stato. Sergio alla fine quasi non ha riconosciuto gli ultimi film.
Qual è secondo te la specificità di Sergio Citti rispetto a Pasolini?
Quando Citti cominciò a girare Ostia, dopo i primi giorni di riprese, andò in moviola a mostrare il girato a Pasolini. Vedendolo, gli disse “Sergio, che cazzo hai fatto?”. Era la prima volta che sentiva Pasolini usare una parolaccia. Pasolini non diceva mai parolacce. Aveva fatto una cosa grave. “Certe cose lasciamole fare a Bartolucci, tu hai una visione delle cose, sei un cantastorie” gli disse. Lo invitò a fare le cose che sentiva, a capire come lui vedesse le cose, a girare le cose come le immaginava. E Sergio diceva “io nei sogni non immagino né dolly né carrelli” per cui, come Pasolini, usava spesso le inquadrature frontali oppure le panoramiche a 360°, ma senza le strutture estetiche di Pasolini. Lui amava il cinema assoluto, Dreyer, Chaplin, amava Umberto D. Lui non andava molto al cinema, viveva nel suo mondo, distante da tutto. La famiglia Citti è un universo tutto particolare. C’era Adriana, la sorella più grande, Silvio il più piccolo, e un’altra sorella che viveva con la madre, ma che io non ho mai visto. Sergio e Franco avevano uno strano rapporto con la madre, una storia molto dura, qualcosa che non hanno mai perdonato: una volta siamo andati a trovarla, credo che non la vedessero da 25 o 30 anni. Franco è entrata ha detto “ciao, ma’” e si è seduto. Non la vedeva da 30 anni. Invece avevano un rapporto straordinario con Santino, il padre, un rapporto quasi di reverenza. Se Santino andava a trovarlo sul set mollava tutti e si metteva a parlare con il padre.
Citti era un vero epicureo, certe cose, come l’amicizia, per lui erano sacre. Lavorava ad un poetica di rimozione delle paure fondamentali, la paura della morte, del dolore, della fame; all’abbandono dei bisogni innaturali per quelli naturali. Sogni e bisogni. Lo chiamavo il Lucrezio de’ noantri.
Era bravo Sergio a raccontare?
Sergio era il più grande ammaliatore che abbia mai conosciuto. Non sapeva nulla della tragedia greca, di Aristotele; conosceva il racconto e sentiva a intuito se c’era un momento di debolezza, se mancava qualcosa o se c'era qualcosa di troppo. Raccontava storie fantastiche. Ma ne aveva a centinaia. Io per lui avevo pensato il progetto delle favole italiane, una per regione, nel quale lui doveva essere il supervisor. Nonostante lui parlasse solo romanesco.
Mi fai l’imitazione?
Io lo chiamavo “Sergione” e quando non gli girava mi rispondeva sempre “Sergione un cazzo”! La sai quella di “sorti”? Sul set di Casotto, dopo “l’azione”, Sergio urla a Jodie Foster: “sorti”. La Foster guarda l’interprete, l’interprete guarda la Foster. Alla fine hanno messo uno fisso a tradurre dal romanesco all’italiano.