Christophe Honoré è uno degli autori – nel suo caso il termine “auteur” nell’accezione classica della Nouvelle Vague è pertinente – più interessanti del cinema francese di questi ultimi anni, poco conosciuto in Italia dove è uscito un unico suo film nel 2004, Ma mère. Scrittore di libri per ragazzi, sceneggiatore, autore di opere teatrali, critico cinematografico per i Cahiers du Cinéma nel passato, Honoré è un artista poliedrico e prolifico. Nel corso della sua carriera cinematografica – iniziata ufficialmente nel 2002 con 17 Fois Cécile Cassard – è riuscito a creare un’opera dal carattere inconfondibile. Attuali ed al contempo struggenti e nostalgiche le storie che Honoré ci racconta si sviluppano intorno ad un nucleo di passioni amorose travolgenti a volte distruttive, a volte inaspettatamente redentrici. La sessualità entra a far parte del suo universo con una libertà ed una freschezza che possono sconcertare una certa parte del pubblico: omosessualità e rapporti a tre, fanno spesso parte della quotidianità dei suoi protagonisti, semplicemente perché la passione amorosa non conosce barriere e coinvolge, senza complessi e tabù, l’essere umano, uomo o donna che sia. I suoi film sono caratterizzati da una scrittura complessa in cui il dialogo, sempre molto curato, preciso e sottile, assume un ruolo molto importante. Appassionato di letteratura, Christophe Honoré ama spesso lavorare sull’adattamento cinematografico di opere letterarie, come nel caso di Ma mère (2004) – tratto dall’omonimo romanzo di George Bataille- certamente il film più duro e cupo nell’insieme della sua filmografia, o in La belle personne (2008), un piccolo gioiello, che trasferisce nella Parigi di oggi le vicende de La Pricesse de Clèves di Madame de la Fayette.

Nonostante i suoi film si svolgano nel presente l’atmosfera in cui ci immergono è quasi atemporale; la realtà si tinge di un velo di poesia che trasforma il vissuto in un’avventura romantica in cui le canzoni fanno spesso irruzione. Il regista  rivisita, in maniera spigliata ed originale, un genere considerato desueto: quello della commedia musicale.  Questi a-parte musicali, di cui sono punteggiati tre dei suoi lavori: 17 fois Cécile Cassard, Les chansons d’amour, La belle personne, sono amalgamati in maniera organica al resto del tessuto filmico e costituiscono parte integrante della narrazione.

Il cinema di Christophe Honoré, prezioso, nostalgico, appassionato, é costruito su misura intorno ai corpi, ai volti, alla voce dei suoi interpreti. Fra questi ritroviamo, da un film all’altro, degli attori che non esauriscono mai il loro fascino ed il loro mistero  per il regista. Vera fonte di ispirazione, Chiara Mastroianni e Louis Garrell, nutrono  con la loro personalità il suo immaginario, dandogli lo spunto per la creazione di nuovi personaggi e storie inedite.

Nella descrizione dello spazio urbano e sociale della capitale francese, luogo privilegiato delle sue ambientazioni, il regista fa coesistere il ritratto realista e generazionale di una città che si è sbarazzata dei suoi clichè turistici con l’atmosfera di un passato cinematografico a lui assai caro, quello della Nouvelle Vague di Trouffaut, Démy, Godard. Il suo cinema non è, ne vuole essere, uno ‘specchio’ della società – forse é proprio questo aspetto che più di altri potrebbero rinfacciargli i suoi detrattori- ma aspira a cercare, come lui stesso ha spiegato, il rapporto fra utopia e finzione.

Con la grazia spericolata di un funambolo, da un film all’altro Christophe Honoré si è imposto come un cineasta essenziale. Ho incontrato il regista l’estate scorsa in occasione della presentazione del suo ultimo film Homme au Bain, al Festival di Locarno. Homme au bain è stato poi mostrato al Torino Film Festival nella sezione Festa mobile.  Conservo un ricordo molto bello della nostra conversazione sulla soleggiata terrazza di un hotel di fronte al lago: Christophe Honoré mi ha parlato molto generosamente della sua vita, delle sue scelte personali e del suo cammino artistico.

Il soggetto del lutto per la perdita di una persona amata ricorre molto spesso nei tuoi film, perché?
All’inizio delle storie che racconto c’è spesso qualcuno che muore, qualcuno che viene a mancare. I miei film sono costruiti in generale intorno ad un’assenza, che si tratti di una separazione, come in Homme au bain, oppure di fatti più gravi. Questo fatto dipende certamente dalla mia biografia: sono nato e cresciuto in un piccolissimo villaggio in Bretagna dove non c’è un granché di vita culturale. Il fatto che io sia riuscito a diventare cineasta, nonostante quest’eventualità non facesse assolutamente parte del mio mondo d’origine, è un qualcosa di molto gioioso per me. I miei genitori erano dei semplici artigiani che non facevano parte dell’ambiente del cinema e non erano neanche cinefili; ad un certo punto della mia adolescenza ho capito che volevo occuparmi di cinema, fare degli studi in questa direzione e diventare regista. La mia vita è cambiata in modo radicale quando avevo quindici anni con la morte di mio padre: questo fatto, oltre alla pena e alla sofferenza che mi ha ovviamente procurato, mi ha paradossalmente  aperto anche una porta.

Questa morte ti ha, in un certo senso, liberato?
Penso che se mio padre non fosse deceduto in quel dato momento le cose sarebbero andate in modo molto diverso nella mia vita; avrei probabilmente studiato medicina o qualcos’altro del genere ma non avrei mai osato andare contro la volontà di mio padre per il quale il cinema non significava nulla. Pur essendo stato un evento molto triste per me la sua morte ha avuto al contempo un effetto liberatorio. Dopo un lutto, il ritmo della nostra vita sembra spesso subire una specie di accelerazione; ovviamente c’è anche chi resta immobile, inerte, si blocca completamente ma io ho osservato più volte che molte persone di fronte alla perdita di un caro, re-inventano a volte la loro vita: trovo che questo sia un soggetto interessante.
In Les Chansons d’amour (2007), per esempio, il personaggio interpretato da Louis Garrel è profondamente sconvolto dalla morte della sua fidanzata, allo stesso tempo però questa morte sembra dargli un’energia nuova: di lì a poco si innamora infatti di qualcun altro che è, in modo totalmente inatteso, un altro ragazzo! La morte ci mette di fronte ad una specie scissione; si tratta di un’esperienza  profondamente dolorosa, ma allo stesso tempo può costituire anche una grande opportunità per qualcosa di nuovo.

I suoi film hanno un rapporto molto stretto con la letteratura, Homme au bain sembra essere invece molto più vicino all’universo della pittura.
 Di solito i miei film sono composti di una parte di scrittura molto complessa ed elaborata, cosa che in generale mi piace molto fare. Homme au bain costituisce in questo senso un’eccezione; avendolo fatto senza dovere cercare dei finanziamenti, non ero costretto a scrivere una sceneggiatura in fase di preparazione e mi sono così sentito alquanto libero. Volevo che le emozioni ed i sentimenti passassero attraverso i corpi piuttos
to che attraverso i dialoghi ed è per questo che mi sono orientato verso una dimensione pittorica. Il film è attraversato da una pluralità di opere d’arte; non ci sono solo i quadri di Caillebotte; nella parte che ho girato a New York ho girato delle scene in un museo ed ho ripreso poi al MoMa una performance di Marina Abramovic. Mi piaceva molto l’idea che alcune parti di Homme au bain potessero leggersi un po’ come un’installazione. Nel film François lavora, giorno dopo giorno, ad un ritratto di Omar; ecco, mi interessava sondare cosa possa significare il fatto di costruire un’immagine per visualizzare ciò che abbiamo dentro di noi.

La maniera in cui hai filmato Homme au bain mi ha fatto pensare ai film girati da Andy Warhol con Joe d’Alessandro. Ti sei ispirato a questi lavori?
Certo! Quando ho cominciato a parlare del film con François Sagat gli ho mandato tutto un cofanetto di film di Andy Warhol per spiegargli meglio cosa avevo in mente di fare. Penso che la maniera in cui si girano i film cioè il budget e le condizioni di produzione decidano in gran parte del loro stile finale. Warhol e Morissey avevano l’abitudine di circondarsi di gente – degli amici o delle persone che a loro interessavano ad un dato momento –  incontrarsi durante un week-end e girare, rivedersi il week-end seguente e girare di nuovo: la finzione si veniva a costruire in una maniera empirica seguendo gli imprevisti delle riprese. Per quanto riguarda la parte ripresa a New York sono stato influenzato piuttosto dai giornali filmati di Jonas Mekkas, dal suo modo di girare molto rapidamente in Super 8 o con una piccola DVcam cercando di raccontare la vita di tutti i giorni come se fosse della finzione.

Potremmo dire che Homme au bain ha costituito,  in un certo senso, una pausa di riflessione all’interno della tua filmografia?
Homme au bain è un film che mi ha permesso di sondare degli aspetti più contemporanei nel fare cinema utilizzando dei mezzi come il cellulare o una macchina fotografica e di uscire da una forma classica talvolta ai limiti del romanticismo. Mi piace che i miei film facciano riferimento al cinema del passato, alla Nouvelle Vague soprattutto, ma questo può essere talvolta anche un peso, una specie di catena. Mi sono domandato se non stessi diventando troppo nostalgico di una certa idea di cinema e fossi, in fondo, incapace di creare un nuovo linguaggio. Homme au bain è stato un laboratorio, un atelier, un esperimento, ma allo stesso tempo mi ha messo la voglia di fare un sacco di cose, ha liberato in me molta di energia.  Io credo che ci si sviluppi da un film all’altro, facendo un passo dopo l’altro. Ho veramente girato molto perché mi piace molto girare e perché ogni film mi fa venire voglia di fare il film seguente. Per me la riflessione sui film e sul modo di farli è un flusso ininterrotto.

Vista l’ambientazione a Gennesvillier, ci si sarebbe potuti aspettare un film socialmente-politicamente impegnato…
Girare Homme au bain a Gennevilliers, che è uno dei quartieri più caldi della periferia parigina, non significava per me dovermi occupare per forza di un soggetto come l’ascesa dell’integralismo islamico o l’integrazione.  Al contrario mi sono detto: farò un film sui ‘froci’ di Gennevilliers che, ovviamente,  rispecchia la realtà sociale di questo quartiere perché, in fin dei conti, in Homme au bain ci sono dei giovani di ogni provenienza e di ogni religione. Non mi fido per niente dei film che promettono di essere degli ‘specchi’ della  vita e della società per questo non mi interessa fare un film sulle prigioni o sulle scuole.  Sono piuttosto il contrario di un cineasta militante, di quello che può essere considerato un cineasta “sociale” ma allo stesso tempo penso di occuparmi nei miei lavori di problemi sociali alla mia maniera. Nel cinema cerco il rapporto fra utopia e finzione.

Cosa significa per te filmare la sessualità?
Homme au bain non è un film pornografico: quello che mi interessava era soprattutto filmare l’omosessualità. In un film pornografico gli spettatori sanno che quanto vedono accade realmente: ora nel mio film le scene di sesso sono una rappresentazione, una messa in scena.  In secondo luogo il film pornografico mira esplicitamente all’eccitazione sessuale dei suoi spettatori; questo non è certamente il fine di un film come Homme au  Bain. Volevo filmare l’omosessualità  in un modo sincero e  portare della dolcezza in questi rapporti eludendo tanto la tematica della performance quanto quella, ormai molto battuta, del coming out. Volevo filmare una virilità un po’ insolita ed avevo l’impressione che in questo senso il mio film poteva essere più inedito ed attuale rispetto a quanto hanno fatto in passato degli altri registi come Chéreau o Téchiné. Quello della sessualità è un soggetto molto complesso: ci sono dei film in cui le scene di sesso sono filmate in maniera più cruda che in altri ma, a ben vedere, dal L’impero dei sensi di Oshima ai film di Catherine Breillat, la storia del cinema è fatta di diversi livelli di rappresentazione. Nel 2004 ho girato Ma mére, un adattamento di un’opera di George Bataille, con Isabelle Huppert come protagonista: era il mio secondo lungometraggio. Mi ricordo ancora che all’epoca avevo una specie di teoria ingenua e stupida secondo cui si sa che tipo di regista si è quando si vede come si rappresentano le scene di intimità. Ma mére è stato un film pesante e difficile da farsi… Col tempo ho capito che il mio sguardo di regista non dipendeva semplicemente dal mio modo di filmare la sessualità.

In Homme au bain dirigi due attori: Chiara Mastroianni e François Sagat provenienti da orizzonti molto diversi. Come si è svolto il tuo lavoro nei due casi?
Quando ho scelto François Sagat per interpretare il ruolo di Emmanuel non avevo lo stesso tipo di preoccupazioni che aveva spinto Catherine Breillat ad ingaggiare Rocco Siffredi, cioé l’idea di prendere un attore che potesse girare delle scene di sesso esplicite. Quello che mi interessava veramente nel caso di François Sagat più che il suo essere una porno star era lui stesso come personaggio: François ha costruito, servendosi del suo corpo, un’immagine di virilità che, a mio avviso, è  semplicemente di superficie. Il mio compito con lui è stato quello di cercare, in primo luogo, di “vestirlo” e poi quello di dargli una vita interiore, di trovare un’emozione, una vulnerabilità e di mostrare che in lui stesso c’é una lotta molto forte fra la sua immagine esteriore e il fatto che lui stesso come persona è molto insicuro. Per queste ragioni il mio lavoro con lui si è costruito lentamente, passo dopo passo. Con Chiara Mastroianni, invece, si è trattato di filmare un altro tipo di “nudità” non quella del corpo ma quella dell’attrice, filmata senza tutto l’armamentario di un film classico – senza un direttore della fotografia, senza trucco e via dicendo – in un modo quasi documentaristico, molto intimo. Penso che in queste condizioni Chiara si sia veramente esposta. il film si è costruito per lei come un’interpretazione che non era propriamente tale, diciamo che Chiara si è trovata ad indossare il ruolo di una figurante di lusso! D’altra parte Chiara ed i
o abbiamo un rapporto talmente forte, cinematograficamente parlando, per cui lei può permettersi di apparire nel mio film come attrice-figurante e può perfino permettersi di venire esclusa dalla finzione stessa nel momento in cui l’interesse di Omar che tiene in mano la cinepresa a New York viene captato da un altro ragazzo. Ciò che trovo interessante nel film è che Chiara viene messa a ‘nudo’ in un modo peculiare; da un lato si ritrova ad essere senza un vero personaggio, dall’altro in quanto attrice, non dimentica mai la presenza della cinepresa anche se si tratta di una cinepresa amatoriale. Chiara stessa inventa nel film una sua verità che è, nonostante tutto, recitazione e fa parte dello stesso percorso artistico che abbiamo iniziato insieme già da tempo.

Ami lavorare con alcuni attori ‘feticcio’ come Chiara Mastroianni o Louis Garrel. Cosa significa questo per te?
Mi piace lavorare con alcuni attori in particolare perché con loro alla fine delle riprese provo una certa frustrazione; mi dico che nel film non sono andato abbastanza lontano, che avrebbero potuto fare delle cose molto più forti. Questa sensazione proviene semplicemente dal fatto che loro stessi, come attori, hanno una ricchezza tale da far sì che io abbia voglia ad ogni ripresa di andare ancora più in là con loro mentre ci sono dagli attori per i quali alla fine delle riprese sento che ho filmato quanto mi interessava in loro e la cosa termina lì.  Louis Garrel e Chiara Mastroianni sono dei tipi di persona per i quali ho voglia di scrivere delle storie, dei film.

La sua fonte d’ispirazione in un attore è il suo modo di recitare o piuttosto la sua personalità, in fin dei conti?
La cosa funziona nei due sensi direi; la forza degli attori consiste nel portare in sè tutto un mondo immaginario. Non posso dire di conoscere molto bene Chiara e Louis nella loro vita privata, ci sentiamo vicini, ma non siamo degli amici nel vero senso del termine. Con Louis c’è una maggiore famigliarità forse perché lo conosco da quando era un ragazzo ma, nonostante ciò, fra di noi c’è la distanza necessaria che mi permette di proiettare del ‘romanzesco’ su di lui.

Le canzoni sono un elemento ricorrente nei tuoi film, mi potresti parlare di questo aspetto del tuo lavoro?

Le canzoni hanno un senso, un significato ben preciso all’interno dei miei film però, a ben vedere, sono entrate a fare parte del mio universo creativo relativamente tardi.
Io sono stato educato cinematograficamente alla scuola di Pialat e di Bresson all’epoca in cui lavoravo come critico ai Cahiers du cinéma, pensavo che la musica nei film fosse un qualcosa di ‘sporco’, che il fatto di utilizzarla avesse quasi un sapore di spot pubblicitario; col tempo mi sono reso conto che il fatto di costruire una scena intorno ad una canzone pop aveva forse una porzione di futilità ma allo stesso tempo anche un certo preziosismo ed una grazia che mi interessavano veramente. Alla fine ho dovuto ammettere di non essere  per niente bressoniano come cineasta! Le canzoni nei miei film non vengono mai scelte per caso, hanno un valore di dialogo e mi permettono alla volta di interrompere brevemente la narrazione ma allo stesso tempo sono molto importanti nella struttura dell’intrigo perché costituiscono degli appoggi del plot.

Il nuovo film che hai in cantiere sarà un film di fattura più classica, basato esclusivamente su dei dialoghi parlati o piuttosto un film musicale?
Il mio nuovo progetto sarà una commedia musicale come “Chansons d’amour” ; la musica è stata scritta da Alex Beaupain. Gli interpreti principali saranno Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve e Louis Garrel; è un film la cui storia parte negli anni ’60 ed arriva ai giorni nostri. Ho cercato di filmare una ricostruzione del tempo che passa, senza però volere fare in alcun modo un racconto di tipo storico-sociale perché questo non è certamente il mio stile; si tratta piuttosto di un incatenamento, di una successione di storie d’amore romanzate, a cavallo fra la fine del secolo scorso ed il presente.

Foto: Press Conference, Christophe Honoré director “Homme au bain”
© Festival del film Locarno / Daulte

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