Il destino di un uomo costretto a superare i propri limiti e a misurarsi con i fantasmi della mente a causa del ruolo sociale e politico che è obbligato a ricoprire: è prima di tutto la storia di un dramma esistenziale quella di Albert, duca di York, secondogenito del sovrano Giorgio V, balbuziente dall’infanzia e chiamato dagli eventi a sostituire l’irresponsabile fratello, divenuto Re col nome di Edoardo VIII, sul trono d’Inghilterra. Mentre in Europa la voce diveniva strumento privilegiato dei regimi totalitari per consolidare il potere attraverso i mezzi della riproducibilità tecnica, come il cinema e la radio, il nobile Berty viveva un conflitto tutto interiore nato, combattuto e in parte risolto all’interno del Palazzo e della casa antica di Lionel Logue, lo pseudo logopedista, attore mancato, che lo accompagnerà in un percorso di riabilitazione culminante nella dichiarazione di guerra alla Germania di Hitler.
Il discorso del re è un film concepito e in buona parte girato in soggettiva, a partire dalla sequenza iniziale, quella in cui il duca di York si trova per la prima volta di fronte a un microfono gigante e a una folla oceanica in attesa del suo intervento per suggellare la chiusura dell’Empire Stadium: una scena quasi irreale quella immortalata dallo sguardo terrorizzato del mite, introverso e tormentato Berty, fatta di sagome silenti e spettrali, di un silenzio sospeso e irreale, di percezioni alterate che confluiscono nel linguaggio spurio, faticoso, intermittente e strozzato di chi teme “persino l’ombra di se stesso”. La scelta stilistica di circoscrivere e ambientare l’intera vicenda in pochi spazi di vita quotidiana vuole confermare il carattere privato, l’aura intima, profondamente psicologica, della storia narrata, il filtro privilegiato cioè attraverso cui guardare ai fatti e ai personaggi. Hooper dispiega una messa in scena marcatamente teatrale, semiclaustrofobica e ostentatamente rappresentativa per condurre lo spettatore nel regno dell’artificio, della maschera, del gioco di ruolo, della compostezza innaturale, dell’anestetizzazione dei sentimenti e delle emozioni; e lo fa adottando soluzioni di regia di evidente derivazione “teatrale”, come gli ingressi in campo dei personaggi e l’uso di dialoghi dissonanti spesso sopra le righe, poco aderenti alla verità del dramma interiore.
I punti di forza del film rimangono, senza ombra di dubbio, la decisione ponderata e intelligente di confinare la grande Storia ai margini della storia e del quadro visivo, sottolineando in questo modo come la tragedia personale del Re superi di gran lunga il suo interesse per l’imminente tragedia collettiva; lo straordinario lavoro di ricostruzione filologica degli ambienti unita alla scelta e alla creazione ad hoc dei costumi dell’epoca. Ma a lasciare il segno sono soprattutto le magistrali interpretazioni di Colin Firth e di Geoffrey Rush, che riescono nell’ardua impresa di rendere credibili e interessanti personaggi incompleti, potenzialmente eccezionali, ma privati in sede di sceneggiatura di uno sviluppo coerente, di un’esistenza al di fuori del testo, di una concretezza tangibile. Il rapporto tra le figure antitetiche del falso medico australiano, irriverente e ambizioso, e il nobile duca orgoglioso e represso, costituiva, dunque, un punto di partenza esplosivo, l’incipit ideale per la costruzione di un racconto avvincente e difficile da prevedere – come in effetti testimonia il primo incontro nell’appartamento-studio di Lionel, che è da antologia – ma questo confronto dialettico rimane tutto sulla carta, appare descrittivo, poco approfondito, fatuo, diremmo addirittura impalpabile. Anche le figure di contorno, incarnate da interpreti di lusso in stato di grazia, su tutte spicca la prova di Helena Bohman Carter, la vera ancora di salvezza per il fragile Bertye, scivolano via senza lasciare alcuna traccia, appiattite da uno script organizzato in blocchi che indebolisce la fluidità e la coerenza del racconto. La regia di Hooper è puntuale e programmatica, visibilmente orientata alla valorizzazione delle performance e supportata da una elaborazione estetica tanto suggestiva quanto funzionale. Ma la maestria tecnica non può colmare l’assenza di pathos di un soggetto cinematografico che stenta a decollare e di cui si fanno carico per intero i due “giganti” del film.
Il premio del pubblico al Festival di Toronto e la pioggia di nomination ai Golden Globe e agli Academy sembrano confermare, ma non sarebbe di certo una novità, come il vero Cinema possa prendere le distanze dall’ufficialità e dalle lusinghe di Hollywood.
D’accordissimo.
Aggiungo una piccola considerazione. Il film è ovviamente – e, per così dire, in piena coscienza – un film di parola, quindi un film di sceneggiatura. Ma se dal punto di vista visivo presenta anche degli sforzi interessanti per caratterizzare la regia in senso espressivo (nella prima parte le inquadrature decentrate e “sbagliate”, gli interni sempre troppo vasti o troppo piccoli rispetto ai corpi che li occupano, la fotografia gelida e in generale una grande cura nella composizione dell’immagine, hanno la conseguenza che i personaggi, e il protagonista su tutti, risultano sempre inadeguati e “abusivi” negli ambienti in cui si trovano), la sua vera debolezza si verifica proprio sul suo terreno, quello dello script. In particolare la mezz’ora finale, in cui lo sfondo della guerra imminente è puro pretesto per ambientare l’atto di eroismo verbale (letteralmente) del neo-re e il pedale della retorica “regale” è spinto senza freni, è davvero un crimine contro la storia perpetrato a mezzo sceneggiatura.