[**] – The Social Network inizia direttamente; senza titoli, né nomi, né niente. Con una chiacchierata introduttiva tra Mark e Erica in cui sono presenti l’inizio e la fine, il male e il bene, il previsto e l’imprevedibile, il concetto e il suo contrario, l’esplosione e l’implosione, l’idea e la sua antitesi: un club esclusivo e il regno del n’importe qui e del n’importe quoi; ciò che doveva essere, ciò che è diventato. In poco più di cento minuti, il film di Fincher racconta la parabola di Facebook, calcando l’attenzione sulle vicende di natura personale che poi, inevitabilmente, finiscono per parlare della Creatura. The Facebook. È cosi che si chiamava all’inizio, quell’idea che Mark Zuckerberg ha parzialmente fregato a due suoi collaboratori che avevano, con estrema lungimiranza, visto in lui un genio della programmazione. Ciò che non avevano previsto, però, è che la sua idea scintillava di più rispetto a una basica “Harvard Connection”, perché di più aveva l’intuizione del “vuoi fare sesso, o non vuoi?”. La domanda è molto semplice, parte sempre tutto da lì. La sua idea era più brillante. Era più furba. Era, in una parola: migliore.

Il fascino di un Lupin della proprietà intellettuale, fa di Zuckerberg un impertinente farabutto di cui non puoi, allo stesso tempo, non innamorarti anche un po’. Sentimento che già appartenne a Margot.

Nella direzione dell’appeal, la scena più sexy del film resterà quella in cui Arsenio Zuckerberg lascia a bocca aperta una schiera di avvocati, dichiarando di non prestare loro se non una minima parte appena della sua attenzione, perché è quello di cui necessitano. E mentre loro arrancano nell’arringa migliore per lui su di lui contro di lui, lui guarda fuori piovere con sguardo distratto e incantato al contempo.

Lupin o meno, è un furto per il quale Mark dovrà pagare.

Tratto da “Miliardari per caso”, il libro che racconta la vera storia della nascita di Facebook, The Social Network è un film che avvince chi ha contemporaneamente sete di “la vera versione dei fatti” e chi di “nella forma cinematografica”. Incalza, incede. In definitiva, si potrebbe dire: un film di interesse storico.

social network%2C david fincherLa grave pecca è che, però, risulta posticcio. È una ricostruzione perfettamente ad hoc. Fin troppo ad hoc. È condito da frasi a effetto, toccanti proprio nella misura in cui fortemente intrise di un senno di poi già verificato. Profetiche ma stridenti, macchinose, verrebbe da dire: inserti (a posteriori). “Has been posted successfully”, inquadrato ben bene. Conosciamo, conosciamo bene. L’incontro con Sean Parker, fondatore di Napster, si inserisce perfettamente in questa stonatura. Le sue battute fanno da coscienza del futuro. “Non sappiamo cosa diventerà”, “noi non sappiamo come diventerà”. E guarda un po’!? E non sarà un po’ troppa, questa estrema coscienza del futuro, questa vigilanza sulle conseguenze, questa tenuta sotto controllo dell’improvvisa intuizione di un attimo. Facile dirlo ora, almeno quanto improbabile allora.

Ed è forse lì che il film va a parare (male). Nel suo voler essere fenomeno di interesse storico-sociale, eccede nell’incastro perfetto dei pezzi del puzzle, e questo suona male perché il puzzle allora era incompleto. Ora abbiamo la visione più chiara di una maggiore completezza. Ma è solo apparenza anche questa.

L’unica certezza è che Mark alla fine resta solo (perderà anche l’amico co-fondatore) in una stanza abbandonata da tutti, avvocati, amici, nemici, ad aggiornare il profilo del suo Facebook. Aggiorna aggiorna aggiorna nella speranza che cambi qualcosa, che accada qualcosa, che la donna che gli ha appena rifiutato un invito a cena, accetti presto la sua Friend Request.

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