Così è stato premiato Kill me Please, commedia punk-nichilista, che sembra alludere, fin dal titolo, a un’inconfessata aspirazione all’eutanasia di questo festival romano. Come se anche lo slogan ufficiale, l’augurio di “lunga e dolce vita al grande cinema”, nascondesse per antifrasi, una pulsione alla dolce morte. Come se l’amarcord tra Roma e la sua giovane Festa Internazionale dedicata alla settima Arte, si fosse prematuramente e dolorosamente conclusa.
Non è tanto una questione di soldi (quelli, nonostante i tagli, grazie alla ressa di sponsor privati, seguitano a vederne di più dalle parti dell’Auditorium che al Lido) quanto piuttosto di idee, poche e confuse. Un crinale che con l’edizione 2010 si è fatto scosceso, costringendo persino la stampa più embedded ad accorgersene (ma c’è sempre l’alibi pronto della crisi globale, come se altri festival in giro per il mondo ne avessero in alcun modo risentito in termini di qualità media delle proposte). Se non si vorrà staccare la spina a questo titano di cartapesta agonizzante, piuttosto che tenerlo ostinatamente in vita vegetativa, sarà opportuno ripensarne con urgenza formula, obiettivi e strutture.
Un consiglio? Intanto riaprirsi alla città come si era scelto timidamente di iniziare a fare nelle edizioni precedenti, coinvolgendo attivamente cineclub, associazioni, siti web e riviste, università e scuole di cinema e tutte le realtà disseminate sul territorio cittadino che contribuiscono quotidianamente ad arricchirne l’offerta culturale.
In questo clima da danze macabre, una giuria audacemente cinefila ha scelto questa commedia belga outsider, produzione a budget ridottissimo, come miglior film 2010.
Kill me Please di Olias Barco, al suo secondo lungometraggio, ha tutte le caratteristiche di quel certo cinema europeo contemporaneo che, forte della lezione del finlandese Aki Kaurismaki e della filosofia punk (non a caso il titolo è una ricombinazione di Please Kill Me, tra i libri-manifesto del movimento punk), facendo di necessità virtù, trasforma l’esiguità dei mezzi di produzione in vitalità espressiva: appena tre settimane di riprese, bianco e nero sgranato e senza orpelli, macchina a spalla e piani sequenza indugiati. Senza mai tradursi in farsa o rimanere intrappolato in paradigmi comici abusati, il film procede sicuro sulla strada di un umorismo sottile, nero e corrosivo, dispiegando una serie di fatti e protagonisti sopra le righe, a cavallo tra iper-realismo snuff e surrealismo, per una meditazione grottesca sul tema della morte assistita. I clienti della clinica diretta dal Dottor Krueger (Aurelien Recoing) sono un gruppo variegato di aspiranti suicidi, incapaci di farla finita per loro conto. Compito del civile e razionale dottore e del suo competente staff è mettere a proprio agio gli ospiti e assecondare i loro ultimi desideri, prima di agevolare tecnicamente il loro passaggio a miglior vita. Depressi cronici, malati terminali, artisti falliti, psicotici e squilibrati ambosessi si ritrovano in questo Chelsea Hotel per malati dell’animo narcisisti ed egocentrici, impazienti di tirare le cuoia e poco propensi a socializzare tra loro. Isolata in mezzo ai boschi, ma non distante da villaggi i cui retrivi abitanti la detestano, la clinica, fa parte di un progetto sperimentale semi-clandestino finanziato dal Governo. Quando il rispetto del protocollo e la quiete del centro saranno messi a repentaglio dall’incombere di una minaccia esterna, i pazienti reagiranno uscendo dall’imperturbabilità e ritrovando un momentaneo gusto per l’azione.
Come suggerito anche dallo stesso regista, che vi si è trasferito per lavoro, il Belgio si conferma terra di accoglienza per strambi rifugiati artistici, sorta di enclave del libero pensiero. Un’extraterritorialità dalle radici lontane, risalenti perlomeno alla colonia di esuli surrealisti che qui vi transitò, e che garantisce oggi diritto di parola ad avanguardie creative altrove indotte al silenzio, alla prigione o al suicidio. Si pensi agli ‘espatriati’ francesi Delépine e Kervern, ormai considerati giustamente punte di diamante del nuovo cinema belga. Il successo inaspettato di C'est Arrivé Près de Chez Vous (Il Cameramen e l’Assassino), piccolo film indipendente del 1992 su una troupe di documentaristi che segue la giornata tipo di un serial killer, divenuto un cult leggendario in patria e all’estero, ha fornito il prototipo per uno schema produttivo che si è rivelato vincente.
Kill me Please si giova del medesimo spirito di libertà finanziaria, morale e artistica, assumendosi interamente il rischio di toccare questioni ugualmente scabrose, con tocco lirico e surreale, al tempo stesso leggero e ferocemente penetrante, senza indugiare nella retorica consolatoria o ricorrere alla scorciatoia di un umorismo grossolano. Olias Banco afferma di essersi ispirato al grande Marco Ferreri. Un cinema così, senza peli sulla lingua, ferocemente indipendente, beffardo senza bisogno di volgarità, vorremmo tanto vederlo di nuovo anche in Italia.