C’è qualcosa di definitivo, di tragico e di apocalittico in Wall Street: Money Never Sleeps, l’ultima fatica di Oliver Stone: l’umanità sembra ormai giunta a un punto di non ritorno. Questo sequel, peraltro non riconosciuto come tale dallo stesso regista del primo Wall Street di ventitré anni fa, presenta i colori cupi di un apologo morale costruito sull’amoralità del potere finanziario, sul pendolo impazzito della Borsa a cui si aggrappano i destini del mondo, sul trionfo assoluto dell’Economico sulla Ratio e sulla Pietas, sulla crudeltà come nuovo vangelo per imporsi e sopravvivere; non trae in inganno infatti il finale hollywoodiano consegnato alla (ri)nascita: una soluzione consolatoria e incongrua. Fragile come cartapesta rispetto al grattacielo di scrittura edificato da Allan Loeb e Steven Schiff.
Se è vero che l’universo diegetico esplorato dalla macchina da presa non oltrepassa i confini dell’Impero dell’alta finanza, intorno – e sotto – ai titanici edifici di Wall Street si percepiscono gli echi tormentati di un mondo che soffre, la disperazione di un tessuto sociale sfibrato, la carestia di una Storia depauperata di cultura, la meccanicità e l’automatismo di un’antropologia senza più anima. E’ nella saccente consapevolezza del predominio del dio denaro che i protagonisti di questo Tempio del profitto esprimono la loro malvagità, sostituiscono i valori al Valore, la dignità al rischio, la solidarietà al privilegio, l’immagine alla vita. Il suicidio del banchiere Louis Zabel (un Frank Langella che può competere con il Nixon di Frost) vittima delle speculazioni del rivale Bretton James, è lo specchio della debolezza di un’utopia estranea a qualsiasi principio, dissociata dall’etica e da qualunque responsabilità civile: la perdita di un capitale, non più di un essere umano.
Il suo “discepolo” Jake Moore, pesce piccolo nell’oceano di squali della Lehman Brothers, punta all’ascesa con il progetto di investire sulle energie rinnovabili. Sul suo cammino incontrerà Gordon Gekko, affascinante magnate di vecchia generazione appena uscito di galera per frode fiscale e truffe similari: in cambio della sua esperienza, l’autore del fortunato best seller Is Greed Good?, chiederà al giovane proprietary trader di aiutarlo a riavvicinarsi alla figlia Winnie, freelance democratica, divenuta compagna di Jake.
Sullo sfondo l’economia mondiale altalena in picchi e discese condizionando – sembrerebbe – i rapporti interpersonali, le cadute e le rinascite emotive dei singoli. Per raccontare questa realtà perennemente instabile, schizoide e spietata nel suo arrivismo senza traguardi Oliver Stone traduce il linguaggio economico in estetica filmica. Come l’onda di un grafico di quotazioni in borsa che disegna massimi e minimi di un mercato in continua metamorfosi, la macchina da presa fluttua dai primi agli ultimi piani dei grattacieli del potere con dolly vertiginosi e panoramiche spericolate per configurare il climax della narrazione. Una regia puntuale, attenta a inseguire gli indici della competizione più spietata nelle sequenze concitate della borsa, nelle riunioni di vertice o nei confronti faccia a faccia, mette in luce il tentativo di rapire le reazioni psicologiche e le sfumature emotive più sottili come risposta al tumulto degli eventi in un atteggiamento duplice di osservazione/fascinazione, come evidenzia l’uso frequente della scomposizione geometrica dell’immagine in un insieme di segni che rimanda a tempi e simboli di un universo folle e ugualmente schematico: Wall Street.
Nel dare corpo alla crudeltà di un magnate senza più scrupoli e illusioni Micheal Douglas sottrae lo scettro del protagonista all’ancor giovane – e qui incolore – Shia LaBeouf, più presente sulla scena ma oscurato dall’attore di Black Rain per vigore interpretativo e malia fisiognomica; la veterana della New Hollywood Susan Sarandon stupisce alle prese con un micro ruolo insolitamente mediocre, mentre appare decisamente anonima la prova del personaggio più “positivo” di questa parabola sull’avidità umana scritta in parte sul volto teso e smagrito di Gekko-Douglas: è una scelta rischiosa quella di affidare al bozzolo di un’attrice la parte dell’onestà, dell’impegno civile e della speranza in un film – e forse in un’America – non ancora in grado di ribaltare il mondo alla rovescia di Wall Street.