È molto curioso come poli tra loro apparentemente lontani si attraggano, non tanto per i contenuti che possono essere divergenti, quanto per gli esiti ultimi. Lo notavo leggendo due articoli sul film di Xavier Beauveais: il primo di Giuliano Ferrara che mette insieme più argomenti, il secondo è invece una vera e propria recensione, quella di Roberto Silvestri sul Manifesto.
Per il direttore del Foglio si tratta di un film che metterebbe “la carità al servizio della menzogna compassionevole, invece che della verità”, inoltre questa rappresentazione buonista (non mi pare che sia così) nasconde una “religione che porta sulle spalle il senso di colpa dell’occidente ex coloniale e realizza un martirio di civiltà muto, senza significato”. Il tutto per dire che in Medio Oriente l’unico posto dove “le parole pace e democrazia, tolleranza e compassione, hanno un senso” è Israele, “l’unico paese dove i cristiani sono davvero liberi” (non è proprio così), al contrario di quanto accade nel mondo arabo-musulmano. Di conseguenza Uomini di Dio è “un film manipolatorio”, si capisce che l’elefantino è un nostalgico delle posizioni forti e radicali, le sfumature concettuali non gli piacciono sempre, del resto quando scrive sembra possedere la verità.
Il critico del Manifesto parte definendo Beauvais “beniamino della critica transalpina pensante”, poi ci ricorda che la vicenda dei sette frati trappisti francesi, missionari in Algeria e lì uccisi, deve essere inserita in un contesto più ampio di guerra (cosa che non accade nel film), dove hanno giocato un ruolo decisivo i poteri forti internazionali e che quindi in quel conflitto non sono morti solo dei religiosi cattolici ma tante altre persone. Il difetto più grande però starebbe nel contrapporre “la nostra civiltà contro la loro, degli islamisti. Così loro sparano, i nostri pregano. Loro sgozzano brutalmente gli inermi, e i nostri s’inebriano di sonorità gregoriane”.
Per ragioni differenti entrambi bocciano Uomini di Dio, ragioni su cui pesano idee e convincimenti lontani dal film, evitando in questo modo di confrontarsi con un tema decisivo, quello della non-violenza. I sette monaci trappisti cistercensi, di fronte alle minacce che provengono dall’esterno, restano fedeli al mandato evangelico, non innescano comportamenti che potrebbero provocare divisione e scontro, danno al contrario una testimonianza di pace. Non accettano di entrare in relazioni di potere, con scambi, trattative e compromessi. La loro presenza mite sui monti dell’Atlante diventa così per la gente del posto (di confessione musulmana) decisiva, tanto che, quando i religiosi ipotizzano di andar via, una donna del villaggio spiega loro che “gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi”, dunque non possono andarsene. Con fatica quotidiana i sette monaci decidono di considerare chiunque e ognuno un fratello. Scrive padre Christian nel suo testamento: “Potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo” .
Scelte che non avvengono con leggerezza: in questo senso commuovono le scene in cui i frati discutono intorno ad un tavolo se partire o restare. Emergono in queste circostanze le paure umane, ma anche la definizione di una vita che non è per la morte: nessuno di loro vuole sottoporsi alla violenza o la aspetta con piacere, capiscono di correre dei rischi e tuttavia vogliono preservare per se stessi la possibilità di scegliere in nome di quello che ritengono “bene”. Insomma uomini liberi e pacifici, cosicché, quello che diverrà il loro martirio, sarà una donazione e non un distruggere la propria vita contro un nemico. Non sono degli eroi. Il regista segue un equilibrio delicatissimo tra l’aspetto documentario e quello propriamente costruttivo della finzione drammaturgica che gli permette di far lievitare l’aspetto umano dei monaci, persone completamente dedite a Dio. Adotta uno stile sobrio, quasi rosselliniano, nel raccontare le loro giornate scandite da canti corali, preghiere, letture, lavori agricoli e domestici. L’unica eccezione è nel finale, con una sorta di Ultima cena, una sequenza esplicitamente simbolica, con le note del Lago dei cigni che riempiono il refettorio. Certo, viene da chiedersi, com’è possibile tenere quel tipo di comportamento, quello stare con i piedi per terra e con la testa in cielo? Probabilmente con la semplicità con cui i monaci accedono al sacro, con la preghiera giornaliera e condividendo le sorti della popolazione di cui hanno deciso di diventare parte.