E' molto interessante nel vostro film il sovrapporsi di formati diversi: le foto e le riprese in bianco e nero di De Agostini, le vostre immagini digitali a colori negli stessi luoghi ripresi spesso in campi lunghi o lunghissimi, il super8, l'effetto video a circuito chiuso nelle scene del magazzino. C'è poi la presenza-assenza di De Agostini che mettete in scena quasi sempre in lontananza, una silhouette quasi evanescente.
I.S.: Inizialmente lo mettevamo anche in primo piano, ma poi abbiamo deciso di non mettere quelle riprese ravvicinate: mostriamo solo le sue mani in primo piano o lo vediamo di spalle in campo medio nelle scene del museo-casa. Abbiamo girato tantissimi campi stretti poi abbiamo capito che quello che dovevamo tenere era il rapporto tra la figurina umana piccola e il paesaggio maestoso. Usarlo come metro: abbiamo usato il De Agostini come unità di misura dei paesaggi. Questa decisione è stata presa in maniera molto precisa, dopo molti montaggi; abbiamo capito che quello era l'unico modo per raccontare il sentimento e l'emozione che De Agostini provava di fronte a questa natura anche spaventevole. Abbiamo fatto riferimento alla pittura romantica, tipo quella di Caspar David Friedrich. Tra l'altro De Agostini ha inventato il turismo in queste zone, che ormai è diventato turismo di massa e che rischia di compromettere il loro delicato equilibrio. Vi sono oggi villaggi turistici e navi da 2300 passeggeri che passano negli stretti della Terra del Fuoco. Non credo che de Agostini pensasse a questo tipo di turismo così distruttivo. Un nuovo colonialismo fatto di conquiste turistiche.
Ad un certo punto nel vostro documentario si parla di un passo di un saggio del De Agostini che venne censurato perché vi si narrava di una strage di indios compiuta con l'avallo del governatore di quelle terre.
G.G.: Il documentario lo abbiamo definito arbitrario perché tutta questa storia la deduciamo, non è certificata da documenti: mancano le lettere di scambio con l'ordine dei salesiani, sono spariti gli articoli del momento. Chissà perché questa sparizione? Su questa sparizione abbiamo voluto pensare che si volesse porre un freno al suo essersi esposto per difendere queste popolazioni. Fatto sta che nel 1937 quel passo non c'era più, aveva accettato il ricatto del figlio del governatore. De Agostini si muoveva autonomamente, ma non poteva farlo senza permessi, evidentemente era tale il rapporto con l'autorità che sicuramente se c'era qualcosa che non andava sia l'ordine che il governatore erano coinvolti. Non abbiamo i documenti per dirlo ma il sospetto è molto forte. Negli anni quaranta lui chiedeva di poter tornare ma lo hanno allontanato, sono anche morti i suoi protettori all'interno dell'ordine.
I.S.: Lui era molto mal visto perché stava lì con la macchina fotografica invece di fare conversioni o messe. Tra l'altro partiva per le sue scalate in compagnia di persone avventurose, compresi contrabbandieri e bucanieri. Invece quando doveva battezzare qualche cima, ha dato il nome a quaranta cime patagoniche, chiamava dall'Italia le guide alpine. Abbiamo trovato testimonianze struggenti di giornalisti che lo hanno cercato alla fine degli anni Cinquanta e hanno raccontato come lui vivesse in estrema povertà e celebrasse messe con un solo fedele in sperdute zone del Piemonte. Io credo che la sua fede fosse sincera. Lui è partito sull'onda dei sogni di Don Bosco, il quale ebbe due sogni sulla Patagonia. I salesiani erano partiti con l'idea di fare del bene, di portare la civiltà. Non possiamo giudicare ora con la nostra sensibilità moderna e condannare queste cose. D'altro canto l'alternativa all'epoca era che i nativi venivano uccisi per ricavarne teschi da vendere in Europa nei musei o per ricavare una sterlina per un paio di orecchie tagliate. Li portavano nelle gabbie durante le Esposizioni universali, in giardini finti dove gli buttavano pezzi di carne cruda spacciandoli per cannibali. Questo era il livello. Darwin aveva parlato male di loro nei suoi scritti, parlando di anello mancante e questo non contribuì certo a migliorare il trattamento cui vennero sottoposti. I tehuelche, gli onas erano altissimi, superavano i due metri, i pionieri li temevano, tant'è che le cartine dettagliatissime lungo le coste lasciavano bianche molte zone dell'interno perché i bianchi avevano paura di quelle popolazioni.
Nel finale mostrate un paesaggio patagonico con molti luoghi abbandonati, molte stalle deserte. E' in crisi l'allevamento che fu così massiccio in quelle zone?
I.S.: Si, c'è la concorrenza cinese, la loro lana costa meno. Anche lì i cinesi, è incredibile.
GG.: Vi sono stalle abbandonate, c'è questo concetto dell'entropia che si sta evolvendo. De Agostini poteva essere considerato l'ultimo testimone di un possibile collegamento con la storia patagonica, perdendo questa memoria noi abbiamo un buco e spesso questo vuoto viene riempito ideologicamente o dai cileni o dagli argentini o da questa o quella tribù. Finché non verrà affrontato il nodo e detto seriamente chi è il colpevole di quello sterminio rimarranno sempre scontri di governi e non di valori umani.
Quanti viaggi avete fatto per girare il documentario?
I.S.: Due viaggi, in primavera e in autunno, ovviamente con le stagioni invertite rispetto alle nostre, siamo stati lì molto tempo.
Una scena molto suggestiva è quella del mappamondo che si anima nel teatro, come l'avete realizzata?
G.G.: Abbiamo realizzato le mappe fuori dal teatro poi le abbiamo scomposte a piccoli pezzi in teatro a passo uno.
I.S.: Come un puzzle. Tra l'altro il teatro dove abbiamo girato è quello, ormai abbandonato, del collegio salesiano di Via Marsala a Roma dove veniva periodicamente proiettato il documentario di De Agostini, specie nei giorni di pioggia quando i bambini non potevano uscire in cortile a giocare.
Torniamo alle letture fatte per la preparazione del documentario, diamo qualche ulteriore indicazione per chi volesse approfondire?
I.S.: Oltre ai testi del De Agostini abbiamo letto Sepulveda, Patagonia Express, Chatwin, Viaggio in Patagonia e Ritorno in Patagonia, Coloane, Terra del fuoco. E un libro verso il quale abbiamo un debito è Monsignor Patagonia, un bel testo di un giornalista argentino German Sapena morto prematuramente nel 2001 in un incidente aereo. Non ne esiste una traduzione in italiano, tanto che nel paese di Pollone, dove de Agostini nacque, non ne sapevano niente neanche in biblioteca.
Come è andato il passaggio del film al Festival di Venezia?
I.S.: E' stato accolto molto bene.
G.G.: Hanno applaudito nelle tre proiezioni in maniera molto calorosa, non erano applausi di circostanza. Il film è stato compreso. La nostra non voleva essere un'operazione intellettuale.
I.S.: Sicuramente siamo riusciti a comunicare qualcosa. Abbiamo sentito che le persone seguivano e si emozionavano. Ci siamo sempre chiesti come trasmettere questa emozione. Spesso in passato abbiamo lavorato per cercare un contatto con le persone protagoniste delle nostre storie. Il colloquio era tra noi e le storie. In questo caso volevamo riparare ad un'ingiustizia. Il fatto che una persona così straordinaria fosse dimenticata per noi era incredibile e volevamo raccontarlo, trasmetterlo agli altri.
G.G.: Rompere l'oblio era l'impegno. Quattro anni di lavoro, dal 2006 al 2010. Non è certamente economico, però mi pare importante che non sia né un documentario normale, né una sperimentazione, né una fiction, ma queste componenti convivano. Trovare questo equilibrio è stato molto difficile e abbiamo molto faticato per arrivare a questa sintesi: da otto ore a sei, poi a quattro e infine a un'ora e mezza.
I.S.: Durante il montaggio lo vedevamo solo noi poi ad un certo punto abbiamo chiamato degli amici: Ghezzi, Turigliatto, Perpignani e venuti loro abbiamo capito che cosa non arrivava perché i loro erano occhi vergini che vedevano il materiale senza sapere nulla di De Agostini. Dalle domande che facevano noi capivamo che cosa togliere e cosa mettere del numeroso materiale girato. E' stato una specie di workshop. Avevamo tantissimo materiale, tantissimi paesaggi, ore e ore di interviste. Abbiamo anche fatto una proiezione di quel materiale nello stesso teatro dove lui proiettava i suoi film; abbiamo invitato tutti quelli che lo avevano conosciuto. Questo materiale fa parte di un altro documentario che abbiamo dato alla Rai, vedremo se poi lo manderanno in onda o meno.
G.G.: E' la parte più didattica del nostro lavoro.
I.S.: Spiega molte cose. Invece ad un certo punto nel nostro lungometraggio ce ne siamo fregati dello spiegare le cose, infatti volevamo creare l'amore per questa persona. Poi se uno vuole si documenta e studia.
Effettivamente vedendo il film viene voglia di approfondire l'argomento.
I.S.: De Agostini voleva salvare le facce e la memoria della loro vera vita. Quelle riprese degli indigeni le ha messe in scena, non è vita vera perché ormai avevano già perso tutto. I cartelli del film sono al passato quando parla dei nativi. Il figlio dello stregone ride quando vede il padre fare riti sciamanici; sono goffi, fanno tenerezza. Gente che era vissuta millenni e che aveva perso tutto.
Che consigli dareste a dei giovani che vogliano fare cinema documentario?
G.G.: Di avere soprattutto delle forti motivazioni, una necessità di raccontare… E' chiaro che non tutte le ciambelle riescono, ma far percepire la verità rimane l'unico…
I.S.: Anche senza aver fatto scuole, anche se il film è fatto male, se la necessità esiste va benissimo. Un documentario mi deve far sentire ignorante rispetto ad una storia o ad un sentimento. L'autore mi deve dare uno spaesamento e una mancanza di certezze. Per questo non amiamo le cose confezionate e già dette.