Womb (letteralmente: grembo) è certamente l’elemento più improprio del nostro trittico zombie ed è bene precisare fin da subito che la collocazione al fianco degli altri due non è priva di una certa dose di ironia provocatoria. Agli antipodi dai canoni narrativi e dall’estetica del genere horror, questo terzo lungometraggio di Benedek Fliegauf, molto atteso nel concorso principale di Locarno dopo che il suo precedente Milky Way aveva vinto qui il Pardo d’Oro tra i Cineasti del Presente nel 2007, è infatti sotto tutti gli aspetti – quasi, diremmo, ostinatamente – un film d’autore. E tuttavia è innegabile che abbia per protagonista uno zombie…
Da ragazzini, Rebecca e Tommy vivono una tenera quanto breve storia d’amore, interrotta bruscamente dalla partenza di lei al seguito della famiglia. Dopo essere stati separati per molti anni, si ritrovano da adulti come se il tempo non fosse passato. Di nuovo però il loro amore è stroncato sul nascere: lui muore in un incidente stradale sotto gli occhi di lei. Devastata dal dolore e incapace di vivere senza Tommy, Rebecca si rivolge al locale Department of Genetic Replication e dà vita a un suo clone. La gioia per un nuovo Tommy che si nutre e cresce grazie alle sue cure di madre, è però presto turbata dalle implicazioni e dalle ambiguità che il loro rapporto comporta. La situazione precipiterà quando col passare degli anni Rebecca finirà per trovarsi di fronte l’immagine esatta del suo amato.
Immaginato in un futuro prossimo, il film è interamente ambientato in una remota zona costiera, probabilmente del nord Europa (l’esatta collocazione geografica della vicenda non è mai precisata) ed esclusivamente in stagioni fredde. Dunque il paesaggio predominante è quello di grandi spiagge semideserte, percorse da rari avventori solitari e governate dagli elementi: la pioggia, il vento, il mare in tempesta. Il talento visivo dell’ungherese Fliegauf è fuori discussione e dentro questo scenario trova un’espressione vivida. La cura estrema nella composizione dell’immagine, i lunghi piani fissi con cui vengono ripresi gli ambienti, la fotografia gelida concertata col fido Péter Szatmári, l’attenzione ai dettagli naturali offerti da un setting meraviglioso (che nella realtà è l’isola tedesca di Sylt, nel Mare del Nord) affascinano nella prima parte e collocano la narrazione in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, in accordo alle intenzioni dell’autore. La questione però è se una tale attenzione formale possa da sola “dirsi” un film.
Una storia come quella raccontata da Womb richiede a chi sta dall’altra parte dello schermo un grado di sospensione dell’incredulità assai elevato. Prima ancora di arrivare alla questione-clonazione e agli ovvi problemi di verosimiglianza che essa implica in quanto opzione a tutt’oggi soltanto futuribile, è necessario che lo spettatore partecipi sin dall’inizio e in maniera totale alla storia d’amore tra i due protagonisti: che vi si immedesimi, in modo che tutto ciò che ne consegue possa avere i crismi della plausibilità. Senza che riusciamo perlomeno a sfiorare l’assolutezza del sentimento che lega magicamente i due dalla più tenera età, la psicologia di Rebecca non può che risultarci incomprensibile e gratuita. Fliegauf sembra dare per scontata questa immedesimazione e non fa nulla per rendere in immagini e parole la chimica che si attiverebbe tra Rebecca e Tommy. Di certo non gli giova, in questo, la scelta dei due attori protagonisti, la Bond-girl ed ex-dreamer Eva Green e il divo in ascesa della TV inglese Matt Smith, drammaticamente privi del carisma necessario e in ogni caso assai mal diretti. Così, paradossalmente per un’opera che aspira ad essere la storia di tutte le storie d’amore, il gelo in cui Womb aveva immerso lo schermo sin dall’inizio non arriva mai a sciogliersi: le sue rimangono solo belle immagini.
Sul versante della clonazione, il film sfiora appena le domande più interessanti (in che misura la genetica impone un sentimento?) e dal momento in cui la scelta di Rebecca è compiuta, imbocca deciso la via più prevedibile: quella che (forse) condurrà i due all’incesto. Quel che è peggio è che questo sentiero è intriso di seriosità e solennità. La protagonista diventa una specie di sacerdotessa, il suo volto una maschera, ogni sua parola una sentenza. Del tutto privo di autoironia, fedele alla sua autodefinizione di film d’autore a tutti i costi, Womb va così dritto incontro al suo destino: il ridicolo involontario.
Dentro questo bel contenitore vuoto si muove spaesato il clone Tommy, zombie a tutti gli effetti, morto che ritorna alla vita e si ritrova nella pellicola sbagliata, rimpiangendo forse di non essere riemerso anche lui, con Sagat, dalle acque dell’Oceano Pacifico.