Pietro di Daniele Gaglianone e Aardvark di Kitao Sakurai mettono entrambi in scena un protagonista affetto da un handicap: Larry Louis in Aarwark è cieco, Pietro, interprete principale dell’omonimo film, ha un leggero ritardo mentale. Questi due anti-eroi, spesso disprezzati o semplicemente sottovalutati, riescono alla fine a riscattarsi e a vendicarsi in modo tanto insospettato quanto spettacolare.
Se i soggetti sono, in teoria, assai simili il modo in cui i due registi li sviluppano è radicalmente diverso non solo in merito all’approccio estetico o al genere cinematografico in cui i due film si inscrivono – Aarwark è un giallo atipico con un sapore vagamente documentario, Pietro è un grande melodramma a sfondo sociale – ma sopratutto rispetto alla definizione e allo statuto dei loro protagonisti. Un confronto-scontro fra questi due film si è spontaneamente imposto sul filo delle proiezioni Locarnesi.
Parte prima: Pietro
Pietro di Daniele Gaglianone é una di quelle opere che prendono in ostaggio lo spettatore, immergendolo dalla prima all’ultima scena, in un’atmosfera opprimente senza scappatoie. Gaglianone mette in scena un grande melodramma dai toni foschi scegliendo come filo conduttore della vicenda la rappresentazione dell’umiliazione gratuita di un individuo senza difese.
Pietro è un “debole” ed in quanto tale sembra essere predestinato al ruolo di vittima: il film si sviluppa intorno a questo motivo, in un crescendo insostenibile, fino alla liberatoria catarsi finale in cui il ragazzo si ribella, una volta per tutte, diventando il giustiziere di tutti coloro che lo avevano ripetutamente offeso ed umiliato.
Il film si apre su una scena di violenza gratuita esercitata da un gruppo di giovani su un barbone in un vagone di metropolitana. Pietro assiste da spettatore a questa scena notturna; incapace di reagire, terrorizzato, scappa in un altro compartimento. Questo episodio prefigura la sua stessa vita. Pietro è un ragazzo leggermente handicappato, docile e di carattere amabile, che vive solo con il fratello maggiore, Francesco, un tossicodipendente, in una vecchia casa ereditata dai genitori. Il ragazzo conduce un’esistenza tranquilla e dimessa distribuendo, per vivere, dei volantini pubblicitari.
Per divertire il fratello e guadagnarsi il suo affetto, Pietro suole fare in privato delle imitazioni grottesche e delle smorfie ridicole. In una delle prime scene del film assistiamo ad una di queste esibizioni; un vero pezzo di bravura interpretativa, intenso e doloroso.
Pietro, clown goffo e caricaturale suo malgrado, è immerso in un mondo feroce e disumano deciso a divertirsi a sue spese. Il fratello lo trascina spesso di sera in un bar, davanti ad un gruppo di amici ottusi e crudeli, servendosi di lui come di una specie di pagliaccio e ridicolizzandolo a più riprese. Pietro accetta di farsi umiliare in cambio di simpatia e di attenzione.
Anche sul lavoro deve subire le stesse offese da parte del suo padrone o dai proprietari degli immobili dove tenta di piazzare i suoi volantini. Un raggio di sole e di speranza sembra entrare nella sua vita quando una ragazza, timida ed impacciata, viene assunta dal suo principale. Fra i due nasce ben presto una simpatia piena di affetto e tenerezza. Quest’oasi di felicità è di corta durata: Francesco che moltiplica le crisi di astinenza, sottrae al fratello i pochi soldi che costui guadagna. Alla fine Pietro si vede perfino costretto, per salvarlo dalle mani dei suoi aguzzini, a fare da navetta ma ciò non sembra bastargli. La situazione precipita una sera quando Pietro decide di presentare la sua “fidanzata” al gruppo di amici di Francesco…
La messa in scena del film stringata, densa, molto curata nelle inquadrature, nella qualità della luce e dei colori é senza dubbio magistrale e va di pari passo con un trattamento del suono molto suggestivo – in alcuni passaggi cruciali della vicenda, il regista inserisce delle spiagge acustiche giocando su degli effetti di intermittenza e creando degli effetti di sinestesia con la vista, anch’essa frammentaria, discontinua. Il protagonista sembra, ogni tanto, volere interrompere il flusso della vita che lo circonda; chiude gli occhi e poi li riapre, mimando l’accecamento dell’eroe letterario Michele Strogoff. In queste brevi pause, la trama stessa del film sembra fendersi, vacillare, aprirsi uno spiraglio di libertà e di speranza.
Dietro una rappresentazione cinematografica dal tocco realista, si avverte una costruzione sapiente, complessa e ricercata che conferisce all’insieme del film unìatmosfera peculiare di insospettata bellezza come quel tramonto su un campo di rottami che – trasfigurato dallo sguardo dei due ragazzi innamorati – appare meraviglioso nel suo squallore.
Il trattamento dell’immagine – luce, contrasti cromatici – dona un’opulenza inattesa a delle scene banalmente quotidiane come quelle dei lunghi tragitti negli autobus o in metropolitana, a luoghi sordidi come il retrobottega del bar dove si incontrano gli amici di Francesco ed illumina con una nota di lirismo la tristezza di una periferia povera e desolata.
Nonostante tutte queste qualità Pietro è, a mio avviso, meno convincente su delle questioni di fondo: la sceneggiatura, pur offrendoci una serie di dialoghi sottili, impregnati di humor nero e di momenti di vera poesia, ci propone una visione estremamente manichea dei personaggi, una morale in bianco e nero.
Il mondo si divide in due campi: da un lato ci sono i deboli – buoni ed indifesi – le vittime predestinate e dall’altro i forti – cattivi, stupidi e violenti – aguzzini per definizione.
Questo postulato viene espresso subito ed il film si sviluppa come un suo corollario mettendo in scena, in una serie di capitoli scanditi da titoli didascalici, la parabola irreversibile dell’umiliato ed offeso. Il determinismo di questo approccio coinvolge tanto i personaggi quanto noi spettatori in un ingranaggio tanto prevedibile quanto forse anche un po’ scontato a priori.
Una desolazione monocorde pervade la trama dal primo all’ultimo momento; il rapporto, univoco, all’insegna di una sorta di sado-masochismo etico, che sembra reggere le relazioni interpersonali fra Pietro e il mondo che lo circonda è carico di un pathos eccessivo, senza sfumature.
Peccato infine che il regista abbia deciso di inserire un’ultima sequenza, in cui Pietro, dopo avere fatto giustizia – gli occhi fissi nella cinepresa – ci spiega, percorrendo a grandi tratti la sua biografia, i motivi che lo hanno spinto ad agire così. Si tratta a mio avviso di un’aggiunta ridondante che priva il film di un vero finale a sorpresa. La grande forza di Pietro sono i suoi attori: il trittico rappresentato dal fratello tossicodipendente, dal dealer Nikiniki, e, ovviamente, da Pietro è eccezionale. Ma Pietro è soprattutto la rivelazione del grande talento di Pietro Casella; l’immagine è abitata, dal primo all’ultimo piano, dal suo corpo fragile e goffo, dal
la dolcezza della sua voce, dall’intensità del suo sguardo, dalla mobilità comico-tragica del suo volto. Quello di Pietro è un ruolo complesso e poco lusinghiero, che richiede, oltre a delle grandi qualità d’interpretazione, una grande generosità e molto coraggio. Il premio per la migliore interpretazione maschile sarebbe senza dubbio meritato. Glielo auguriamo.