[*] – Ha trionfato con il Marc’Aurelio d’Oro alla scorsa edizione del Festival di Roma il film Brotherhood, un’opera solo apparentemente vigorosa: rilevante a livello formale, superficiale e smarrito invece nei contenuti. Un vincitore che nella tematica affrontata strizza un occhio al sociale d’attualità, mentre l’altro resta socchiuso e incapace di affondare la lama in maniera incisiva. Con uno splendido uso della macchina a mano, in un involucro misurato ed equilibrato, il lavoro dell’esordiente danese Nicolo Donato rivela però défaillances e approssimativismo.

Danimarca, Lars lascia l’esercito e diventa adepto di un gruppo neonazista che, tra le tante attività politico/propagandistiche, organizza raid punitivi contro immigrati e omosessuali. Quando Lars viene cacciato dalla famiglia, lo stesso gruppo gli propone di condividere una piccola casa con l’associato Jimmy, il quale si occuperà dell’apprendistato del nuovo arrivato tra regole di condotta e Mein Kampf. Presto tra i due nascerà qualcosa.

Fortunatamente nessuno scandalo all’orizzonte: possa ogni festival guardarsi bene dai film scandalo che sono sovente figli di casi e argomentazioni portati avanti e mostrati con impetuose monocausalità, esagitate progressioni e chiassosi quesiti dipanati con l’accetta. Brotherhood, invece, avanza cauto tra pacate atmosfere; descrive, evitando banalizzazioni sostanziali, le dinamiche e gli andamenti del gruppetto dei nazifascisti associati: ne mette in mostra la razionalità interna e il loro prudente agire politico (attenti a non commettere passi eccessivamente falsi che possano infangare il loro nome). Dipinge con sfumature le fattezze di quella cerchia: non solo disagiati e marginali individui, ma anche capi dai tratti simil-borghesi. E poi arriva la storia omosex, fatta di una passione che irrompe, ma senza strabordanti e altezzosi schiamazzi, una passione composta di sguardi che alludono, di nudi reticenti e primi baci inaspettati, ma risolti senza luoghi comuni, in un progredire che fortunatamente evita il melodramma. La storia procede così, misurata, evitando mosse false, verso il semitragico finale in cui ciò che c’è tra Lars e Jimmy verrà inevitabilmente allo scoperto.

Broderskab Ora qualche legittima considerazione: può una manciata di sguardi che evoca smarrimento o vaghe atmosfere che sottintendono disagio, risolvere il contrasto evidente tra l’essere gay e far parte di un gruppo di nazi che va a caccia di omosessuali per pestarli? Possono gli stessi protagonisti vivere la loro storia senza forti contraddizioni e scompensi, domande e febbrili nottate passate insonni nel cercare di decifrare e risolvere la loro identità?

Potrebbero se la loro fosse stata una storia di omosessualità repressa, ma vissuta e oggettivata unicamente sul sesso, ma di un sesso quasi bestiale, incattivito, che non lascia spazio ad altre considerazioni, ad eccessivi squilibri. Una omosessualità carnalmente catalizzata, vissuta in quell’attimo istintivo che inebria per poi stordire verso il rimosso. Vissuta in una parentesi, quella sessuale, che passa e si dimentica subito dopo averla consumata. Ed invece no, nessun carnale sfogo, e tutto quel che ci è dato sapere sulla natura di questa relazione viene improvvisamente rivelato in una delle poche battute in cui i due parlano apertamente: Lars chiede a Jimmy se riesce a conciliare il far parte del gruppo nazi con il loro ‘stare insieme’ (!?!). Ma lo ‘stare insieme’, che tira in ballo un riconoscersi come relazione che non sembra far parte del loro mondo, non implicherebbe una presa di coscienza? Un (anche difficoltoso) accettarsi e definirsi come coppia omosessuale? Nessuno squilibrio tra l’essere e il dover essere? E se pur questa coscienza esiste, come diavolo possono continuare a frequentare assemblee, riunioni e attività del loro gruppo, per giunta sperando di non esser scoperti? Forse per eccessivo bisogno d’appartenenza? Ma questo non è dato sapere, né simili analisi traspaiono con lo scorrere della pellicola!

All’epoca della presentazione del film al Festival di Roma, dopo la proiezione, siamo corsi in conferenza stampa per ottenere più di una delucidazione. Tra le prime legittime domande rivolte al regista c’è stata quella sul perché di una storia omosessuale in un ambiente estremista, risposta: “la storia nazista non è così importante, fondamentalmente volevo parlare di una storia d’amore”. Qualcosa non torna, la traduttrice assonnata avrà interpretato male la risposta. Qualcuno insiste: “perché proprio in un ambiente nazi?”, stavolta il laconico regista cerca di aggiustare il tiro “perché l’amore è forte ed è necessario rispettare i propri sentimenti (…) la passione si alimenta con gli ostacoli e i tabù e non ho trovato di meglio che l’omofobia politica per raccontare di un appassionato amore…”. A quanto pare Donati sdogana l’ambiente politico/culturale dei protagonisti ad un irrilevante sfondo, uno tra i tanti possibili. Scomodare un contesto di questo tipo ed erigerlo a pretesto appare decisamente superficiale e avventato, lo è ancora di più se consideriamo quali e quante implicazioni quel pretesto può avere con la materia del film. Ci auguriamo che per la sua opera seconda il pur talentuoso Donato scelga temi e “pretesti” con le idee un po’ più chiare.

One Reply to “Il premiato Brotherhood arriva nelle sale”

  1. Caro Giustino,
    ho letto la tua recenzione e benchè le tue considerazioni siano leggittime ed autorevoli, vorrei porre l’attenzione su un’altra questione: il cinema.
    Mentre guardavo il film mi rendevo conto che la cosa che più funzionava era proprio lo scorrere fluido ed appassionante della storia, peraltro molto ben ripresa e recitata da tutto il cast. Nonostante i tanti punti oscuri e certamente non esplicitati nel racconto, la storia d’amore viene ripresa come da un osservatore a cui non è dato entrare nella parte più intima e privata del rapporto. Gli sguardi (che gli attori sanno sapientemente e misuratamente gestire) il contesto sociale e la costuzione del dramma riescono a portare lo spettatore in una dimensione fortemente emozionale, in cui non è più importatnte spiegare ma vivere. Credo che questa sia la natura del cinema quando funziona il resto credo faccia un pò parte di quello che sarebbe potuto essere se la stessa storia fosse raccontata in un altro modo.
    Probabilmente la vincita come miglior film non è del tutto meritata ma ciò non toglie il merito di poter godere della visione di un buon film, la qual cosa non capita di frequente.

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