L’ultimo film di Kiarostami agisce sul piano del discorso inteso in senso stretto, cioè sul piano della narrazione verbale. È dunque un film narrato, non da un cantastorie, da un narratore esterno, ma dagli stessi protagonisti che, contemporaneamente, si nutrono della loro narrazione per farsi progredire, per far evolvere la storia, per mettersi in scena.
Non in chiave metalinguistica, ma nella misura in cui ciò che accade, che dura e che finisce ha validità entro i limiti del linguaggio. Avanza, ma rimane discorso. Le uniche trasformazione che avvengono sono dai discorsi ai ruoli, e non viceversa; è il discorso che fa il ruolo, e non viceversa. Non è l’azione che guida il linguaggio, ma il linguaggio che, rimanendo in se stesso, cioè non invadendo altri domini, si fa responsabile e garante del procedere della storia. La proprietaria del ristorante li scambia per marito e moglie tramite una frase. E dice: “dev’essere un bravo marito, il suo”. E i ruoli seguono: il discorso in questione è un discorso inscenato. È qui che prende coerenza il film di Kiarostami: è scegliendo di non uscire dall’universo del linguaggio che riesce a mantenere la promessa.
I discorsi avvengo durante un vagare di una giornata. La dimensione del “lontano da casa per un giorno”- che poi è la gita in un posto estraneo e improvvisato – rende estranei e improvvisati i personaggi stessi, legittimati, in questo da, simmetricamente, un ritorno a casa dove ti accorgi che è tutto finito; torni a casa la sera ed era tutto finto, ti svegli la mattina dopo e non sai se è stato sogno o realtà. E se, visto che di parlare si tratta, fossero rimasti in casa, uno di fronte all’altro e entrambi di fronte al camino, chiaramente non sarebbe stato lo stesso, perché il vagare ha in sé un peso fondamentale.
Della ripresa di un gesto che non sia un movimento labiale dalla cintola in su, come allungare le mani, modificare le cose, spostare un oggetto da un luogo ad un altro, si sente la mancanza. Non è mai l’azione, neanche la più basilare come un movimento del corpo, a portare avanti la narrazione, a far evolvere la vicenda che pure ha una sua curva narrativa. I due non hanno i gesti di una coppia sposata da quindici anni; ne possiedono le parole. E neanche si parlano veramente; non entrano in scambio comunicativo, non in empatia, perché ognuno pensa alla propria, di parte. E le parole non hanno valore per modificare qualcosa sul piano della realtà, dell’azione, è il contenuto di ciò che vanno dicendo ad essere importante, perché è fine a se stesso. Riempiono frasi generate da automatismi culturali, così come una messa in scena è il “roteare il vino nel bicchiere; assaggiarlo; guardare un angolo del soffitto; dire che va bene” (momenti di alta satira !).
Tra i due non c’è comprensione linguistica, ma non c’è neanche contatto fisico; l’unico momento che rompe i mezzi busti parlanti (lei, a piedi scalzi, che poggia la sua testa sulla spalla di lui), a lungo parlato prima di essere agito, è il preludio della fine, la presa di coscienza, l’invitabile declino, prepara alla fuoriuscita dal linguaggio, dalla recita, dalla finzione, spiana la via al toccarsi. Escono dalla finzione entrando nella camera dell’albergo, riparo del vagare, deflagrazione della concretezza, e lì la corporeità vera di lei pizzica la bolla di sapone dell’arte disintegrandola.
È irrilevante che faccia da cornice una meravigliosa Toscana con un sacco di campane che suonano da tutte le parti, perché finisce per essere niente di diverso da una bella scenografia teatrale. È irrilevante che lui sia lui, che lei sia proprio lei, perché quel che conta sono solo i ruoli, le parti; e il gioco della parti. Si inventano in una coppia sposata da quindici anni che, camminando, cammina nella memoria, nelle incomprensioni, passate e presenti. Si riversano addosso paranoie, rancori, idee sbagliate, schemi mentali, preconcetti. Lei potrebbe essere qualsiasi donna e lui qualsiasi uomo, quello che rappresentano è quindi anni di idee sulla coppia, di pensieri sui mariti, sulle mogli. La loro è la storia delle storie. Non è mai stata la storia di un principio di un amore; ma un atto di critica. Non c’è speranza neanche per lei, sebbene pianga, di volere davvero l’inizio di qualcosa. Lei piange perché fa parte dell’attuazione del cliché previsto e, alla stregua degli stessi principi, è la donna che cerca di rimettere insieme, di mantenere i pezzi, di salvare il salvabile.
Juliette Binoche, che è definitivamente la copia conforme (estetica) francese di Laura Morante, capelli raccolti, lenti dietro la testa con ciuffi che scendono lateralmente, ma più incerta di lei – si diceva – più dolce coi lineamenti, viene inquadrata spesso in specchi piazzati al centro di una scena, grazie ai quali si uniscono due punti di vista altrimenti inconciliabili, se non a prezzo di campi/controcampi vari, che è sempre un piacere cercare di evitare.
Domanda? E se avessero messo in scena il non conoscersi e, in questa messa in scena, avessero fatto finta di essere sposati da quindici anni? Due sposati da quindici anni che fanno finta di essere due sconosciuti che fanno finta di essere sposati da quindici anni. Tradotto: se avessero cercato di guarire tramite l’arte? La disamina non cambierebbe perché l’esito senza salvezza rimarrebbe lo stesso, e la materia del racconto pure. E la materia del racconto è l’assenza di azione: tutto quello che accade ora e qui in narrazione è già accaduto altrove e prima in azione. Questa è la scelta di Kiarostami. Viceversa: la sete di azione in altre scelte è il motivo per cui per certi film ti chiedi: ma è possibile che accada tutto ora, ora che il film è iniziato, un sovraffollamento tale di roba? E un minuto prima del film erano tutti lì a girarsi i pollici fra di loro. Eddài.
Recensione acutissima, ancor di più perché gioca mimeticamente col film non sciogliendo mai l’ambiguità del suo giudizio così come il film non scioglie quella dei propri presupposti narrativi. Copia conforme al quadrato.
Mi viene da pensare che se non l’avessi visto, sarei forse affascinato dal leggere di un film che insegue una dimensione così ostinatamente “teorica” (“protagonisti che si nutrono della loro narrazione per farsi progredire, per far evolvere la storia, per mettersi in scena”). Invece il film l’ho visto. E queste parole che sullo schermo estenuantemente si auto-avverano mi sono sembrate quasi sempre banali, artificiose, raramente credibili, tali che nessuna teoria avrebbe mai potuto sostenerle.
Forse Kiarostami mantiene la promessa. Ma il cinema?