Difficile stabilire dove finisca il personaggio e dove cominci la persona quando si parla di una figura della mitologia di un certo cinema americano, di un’epoca fortemente caratterizzata dal cambiamento sociale, politico, culturale che Dennis Hopper non ha solo metaforicamente attraversato a cavallo di una motocicletta, proiettando l’industria hollywoodiana dall’incanto dentro il disincanto, dall’artificio dei teatri di posa alla disorientante verità delle strade di un’America sconosciuta. Se chi, come me, nato nel 1977, dovesse andare a chiedere informazioni su Dennis Hopper a qualcuno che ha vissuto quell’entusiasmante, rabbiosa epoca tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ’70, su quello che è stato e che ha rappresentato, la prima immagine che salterebbe fuori sarebbe inevitabilmente l’Harley Davidson di Easy Rider, un’immagine che ormai è entrata a far parte della cultura pop, che ha superato i confini della storia di un film e del suo autore per diventare il simbolo materiale di un valore, di una filosofia di vita sempre più strumentalizzata dall’industria che aveva cercato di distruggere. Che Hopper sia stato sepolto dal suo stesso mito? Questo potrebbe apparire ad un osservatore superficiale, immobilizzato nella visione pigra e imbalsamata di quel fotogramma che influenza, condiziona e paradossalmente limita, pur volendo esprimere un’idea di apertura, di complessità; una strada spalancata su diverse direzioni e che invece Hopper stava imboccando sui rassicuranti binari del clichè del disadattato ribelle, del folle deviato che mette in pericolo la società ma da cui la società sa difendersi perché lo trova assolutamente riconoscibile e ridimensionabile.
Ma, come dicevamo, questa resterebbe una lettura superficiale, il fermo immagine del poster di un film al quale in realtà Hopper da antagonista, puro e duro di cuore, si è sempre ribellato, sgattaiolando tra le trappole del business, continuando come regista a seguire percorsi personali, fuori dagli schemi narrativi ed estetici, e come attore ad incarnare un’umanità tanto più tragica quanto più vera, grazie alla sua maschera in bilico tra una giovinezza bruciata troppo presto e una vecchiaia resa precoce dall’eccesso e dall’abuso. I sogni del Billy di Easy Rider, quelli infranti contro la brutalità della parte più intollerante di un’America rurale, barbara, arcaica, il vero volto, anzi, i veri volti di uomini e donne disposti a sacrificare sull’altare di un obsoleto e ottuso sistema di valori qualsiasi utopia di alterità e cambiamento, quei sogni diventeranno il fantasma che attraverserà tutto il cinema americano degli anni settanta, fino a risvegliarsi dentro all’incubo ovattato e conservatore degli ottanta. Stupisce non trovare il nome di Hopper in un film che è sicuramente il primo figlio del disincanto e dell’amarezza contenute in Easy Rider, quel Tranquillo week-end di paura diretto dal britannico John Boorman, racconto di un altro viaggio nel cuore di un’America che stava sparendo dal punto di vista paesaggistico ma che faceva esplodere l’aggressività primitiva dei suoi abitanti, ancora una volta contro i rappresentanti di una tipologia di uomo nuovo, che si poneva con una sensibilità diversa e una consapevolezza più dolorosa verso l’ambiente che lo circondava. Di questa consapevolezza è permeata tutta l’esperienza umana e professionale che Hopper infonde alle sue rare e preziose opere da cineasta, come il misconosciuto e dimenticato Fuga da Hollywood che già nel 1971 celebrava nel titolo originale, The Last Movie, la fine di ogni illusione e il contatto con una realtà, quella degli Indiani d’America, che rimaneva l’unica, emarginata, confinata, rimossa, a mantenere un senso di sacralità e di magia nei confronti del cinema. Anche in quel caso lo sguardo di Hopper partiva dal “basso”, dal sottosuolo visto che il suo personaggio, Kansas , faceva lo stuntman, il mestiere cinematografico più pericolosamente vicino alla verità, e forse proprio questa deformazione professionale e umana lo rendeva più disponibile a immolarsi come protagonista assoluto del film alternativo realizzato dalla tribù indiana senza filtri, senza compromessi, con la morte non simulata come unico possibile finale.
Dopo quella morte, peraltro guardata a posteriori visto che questo film l’ho scoperto successivamente e spulciando tra i titoli della sua filmografia da regista, il primo ricordo che conservo di Hopper è legato proprio ad un film realizzato nell’anno della mia data di nascita, il 1977, in cui resuscitava come ambiguo, controverso trafficante di quadri con tendenza al delitto per il Wim Wenders de L’amico americano, una trasposizione in chiave esistenzialista dei romanzi noir di Patricia Highsmith e del suo personaggio feticcio, Tom Ripley. Un Ripley magnificamente infedele all’eroe letterario, disconosciuto dall’autrice, ma che Wenders, tedesco che ha sempre guardato alla cultura americana tra mito e disillusione, ha virato sulla pelle del suo attore che ha ricambiato imprimendo sul personaggio il suo spirito alcolizzato, spudorato, irriverente verso la vita e la morte eppure intriso di una nostalgia struggente a cui si oppone premendo l’acceleratore sulla strada senza ritorno di ruoli al di fuori di ogni regola etica e di ogni comportamento socialmente e moralmente accettabile: l’assassino, il ladro, il sabotatore del buon gusto e delle buone maniere di un ambiente particolarmente alto come quello dei mercanti d’arte, il cui unico partner in questo gioco al massacro non poteva che essere un mite, schivo corniciao malato nel corpo e nell’anima.
La malattia, quella che corrode e logora e che lo ha portato all’ immagine consumata degli ultimi giorni prima della sua scomparsa, è stata sicuramente il tratto distintivo che ha segnato la presenza di Hopper come figura portatrice di uno sguardo corrotto e allucinato, che ha avuto il necessario e ingrato compito di scorticare la patina rassicurante dietro la quale l’America violenta, evoluzione riverniciata ed esposta di quella nascosta e radicata raccontata da Easy Rider, nascondeva una faccia rimasta ancora brutale e arcaica.
Un ragionamento questo a cui sono arrivato attraverso il forte impatto suscitato da un nuovo incontro, dopo il Ripley di Wenders, con il Frank Booth di Velluto Blu, opera cardine del Grande Visionario della malattia e delle sue diramazioni sotto il tessuto della psiche, della carne, delle emozioni: David Lynch.
In questo caso il personaggio interpretato da Hopper è un compendio di tutto quello che era stato e di tutto quella che sarà l’idea di cinema portata da questo attore/autore, un’idea che incrocia le strade della brutalità e del romanticismo, che sa essere sporca, cattiva, delirante ed ossessiva, ma anche vulnerabile, fisica, disposta ad ammettere la dipendenza da sostanze stupefacenti per giustificare l’iperbole della visione, il desiderio di andare oltre gli spazi angusti e soffocanti delle casette a schiera di una piccola cittadina di provincia. In fondo noi vediamo attraverso la mascherina di cui si serve Frank Dennis, in maniera compulsiva, per aspirare le droghe che gli permettono di abitare quei luoghi anonimi come un’esperienza straordinaria, assoluta, una realtà veramente altra da cui forse non &
egrave; più possibile tornare indietro ma che offre l’unico appagamento alla fame di conoscenza e di superamento dei propri limiti fisici e psicologici.
Certo, da adolescente, quando l’ho scoperto per la prima volta sullo schermo cinematografico come cattivo che faceva saltare per aria gli autobus in Speed di Jan De Bont, Hopper era semplicemente l’antagonista dei film americani e ogni suo gesto, ogni sua macchinazione diabolica rimanevano funzionali allo sviluppo della suspense prima che l’eroe di turno, in quel caso Keanu Reeves, ristabilisse l’ordine e la legalità. Eppure anche dietro a quel pazzo psicopatico di un blockbuster estivo si avvertiva la stoffa del grande anarchico che sfida la società e le sue istituzioni, chiedendole di rincorrere disperatamente l’equilibrio labile su cui è costituita, ponendo questioni morali e scatenando contraddizioni, come avrebbe fatto poi il joker de Il cavaliere oscuro.
L’immagine con cui voglio congedare Hopper è però quell’apparizione inaspettata, disturbante e toccante al tempo stesso, come padre alcolizzato, sconfitto e perdutamente malinconico del Rusty il selvaggio di Francis Coppola. Per un attimo, in quello sguardo schizzato con tracce di rabbia giovanile e deviazioni verso gli abissi della follia, mi è parso di vedere il rimpianto per un sentimento paterno sprecato, un lampo di vibrante umanità oltre il mito del poster di un film.