[*12] – Hai ragione anche tu, cosa voglio di più.
Cosa voglio di più. O è retorico, o è affermativo. Negli amori clandestini capitano entrambe le cose. A ciascuno la sua. Alternativamente. Cosa voglio di più… la mattina c’è chi mi prepara il caffè questo io lo so e la sera c’è chi non sa dirmi no. Cosa voglio di più? Non fa una piega, in effetti. E questa è la parte retorica. Quella affermativa ti propone invece un elenco di cose, continua con i due punti. Cosa voglio di più: tutto, voglio di più.
Ma alla fine bisognerà pur sempre portare rispetto a Lucio (Battisti, ndr) e allora, nella vita come nei film, di solito se non vuoi un Amaro Lucano, vuoi Anna. E i ruoli si chiariscono quando il film finisce. Il film finisce dove inizia la canzone. E non si sta certo parlando dei titoli di coda. Non hai mai visto un uomo piangere? Apri bene gli occhi sai perché tu ora lo vedrai.
Metafisico Soldini. Lo si salva così, questo film, cosa voglio di più. E, nella continuazione, non si parlerà più di retorica. A volte capita, voglio dire, che sai per certo come un film andrà a continuare. Perché i film non finiscono, è solo che spariscono dallo schermo. Come una pagina di word quando sei a quella successiva.
Cosa voglio di più. Cosa voglio. Fai tre passi indietro, poi due in avanti, poi all’indietro, poi in avanti. Ti giri su te stesso, sulla destra, poi sulla sinistra. Poi ci ripensi, poi richiami. Decisioni risistemate, ridiscusse. Aggiustate, rimboccate. Poi si sparisce, poi si riappare. Non c’è ragione alcuna perché finisca. E infatti il film si lascia continuare bene.
Apri bene gli occhi sai perché tu ora lo vedrai. Apri bene gli occhi sai perché tu ora lo vedrai. Se tu non hai mai visto un uomo piangere, guardami, guardami.
Anna ride spesso. Eppure si ha come l’impressione che ci sia in lei un’inquietudine che deve uscire da qualche parte, che deve pur essere dirottata su qualcosa. E si sa perché c’è un momento in cui le motivazioni di un film si sovrappongono a quelle dei protagonisti: le esigenze del primo diventano le azioni dei secondi.
Anna (Rohrwacher), capelli tinti male di periferia, ha un amorevole, attento, presente, affidabile, gentile, educato, rispettoso (in una parola travolgentissimo) compagno, un Battiston d’annata nella sua migliore (quindi peggiore) forma, che le porta con tanto affetto pezzi di casa impacchettati, pronti per essere montati. E che, altrettanto affettuosamente, non si accorge di niente, quando invece avrebbe dovuto insospettirsi già all’iscrizione di lei al corso di pittura, che fa le veci di quei famosi corsi di tango che di solito si frequentano da una certa età in poi. Anna, ombretto pesante, individua la via di fuga nel tizio del catering. Favino parla un calabrese che sembra più un sardo, ma a Milano tutto è permesso, perché tutto è imbastardito (nella stessa Milano c’è un Fabio Troiano che, da torinese qual è, parla invece un napoletano impeccabile).
Sull’apparizione di Favino il film opera un passaggio di testimone. Dalla vita di lei si passa alla storia di lui. Entriamo in casa sua: è senza troppi soldi, e senza troppo entusiasmo, sia coniugale sia genitoriale. E allora inizia a convertire le ore della piscina in motel, anche questi a ore, all’interno dei quali in pochi secondi si rimane vestiti solo dell’orologio, che sia Breil o meno poco importa. E poi torna a casa dalla moglie e bagna le cose della piscina, per forza asciutte, sotto l’acqua della doccia e lava per terra con la muta. Perché lui in piscina ci va a fare le immersioni, e da “Il laureato” in poi siamo certi che chi sta sott’acqua in piscina lo fa perché non vuole né vedere né sentire.
Ho dormito lì fra i capelli suoi, io insieme a lei ero un uomo e ci si chiede, vista la situazione, quando e se possa mai arrivare la tragedia, quando e se scoppierà l’equilibrio, seppur precario. Chi ci rimetterà di più? Il film mantiene bene la tensione. “Mi sono innamorata, cazzo”, dice lei a un’amica. Lei che invece ha una vita ancora poco vincolata, senza figli, senza matrimonio. Può essere, apparentemente, quella che rischia di meno. E infatti è quella che rischia tutto. Cosa voglio di più, hai ragione anche tu, cosa voglio di più, cosa voglio.
La quotidianità ingrandita al microscopio di Soldini, fatta di salviette struccanti e cerchietti da casa la sera in bagno, al limite del documentaristico, è lenta, come la vita. Allungata come una giornata feriale, protratta da ore vere. Diluita come l’abitudine. E l’assenza di poesia è pienamente legittimata. Basterebbe ricordare anche solo “Brucio nel vento”.
Possono apparire discutibili l’inserimento di alcune scene di descrizione del personaggio di Favino (l’incontro con il fratello, ad esempio, che, per inciso, è il direttore della fotografia in “Boris”), perché aprono a piste che si rivelano poi del tutto cieche, o la recitazione degli attori secondari, alcune scelte di piani e, soprattutto, i tagli prematuri su scene che invece richiamano il bisogno di decantare. In questo senso, gli stacchi ellittici non chiariscono le evoluzioni e le trasformazioni passionali dei personaggi nel volere a un certo punto di più o di meno, lasciandole per sottintese. Ed è per questo che in un’inquadratura stranamente insistente, mentre lui, soddisfatto, sorride specchiandosi nei bagni dell’aeroporto, lo sai molto bene che lei, di là, sta lavorando per cercare di togliere un po’ di peso al peggio che in arrivo.
Si risolve senza risolversi ma un lavoro io l’ho, una casa io l’ho, erase and rewind, cosa sono ora io, cosa sono mio dio.