Una volta una redattrice di Schermaglie affermava, cercando in me un sostegno, la libertà di potersi commuovere al cinema, senza che quel moto emotivo, quando non si tratti di vere e proprie lacrime, non finisca per ridurre il valore del giudizio critico espresso. Ovviamente non potevo non darle ragione: piangi e scrivi bene, le dissi. È ancora diffusa la convinzione, ma sarebbe meglio dire il pregiudizio, che le valutazioni, quale che sia il campo di applicazione, debbano fare a meno delle emozioni. Come se la partecipazione integrale di noi stessi fosse un limite alla comprensione e non un’opportunità, anzi potremmo parlare a proposito dei fenomeni estetici di un accesso privilegiato, grazie proprio a quanto sentiamo. Dobbiamo aggiungere, per non ingenerare fastidiosi equivoci, che anche il sentire deve essere allenato, così da poter distinguere i diversi sentimenti da cui siamo presi. Per essere didattici facciamo un esempio: potrei piangere a dirotto per una scena che mi smuove delle corde a cui sono sensibile, questo non vuol dire che ci troviamo di fronte ad un capolavoro. Chiaro, no?
Tutta questa premessa nasconde probabilmente la mia coscienza sporca, altrimenti detto: la mia difficoltà di scrivere che guardando Lourdes mi sono commosso. Adesso però ce l’ho fatta a dirlo. Provo ora a spiegare le ragioni del coinvolgimento che m’ha colto. Tranquilli non siamo a: “Confessioni di un critico lacrimevole – alias Marlino Merluzzo”. Le ragioni non sono di carattere personale, non c’è stato un investimento riflesso da vicende e fatti della mia vita privata. O forse c’è stato ma non è interessante starvelo a raccontare, almeno in questa circostanza. La questione sta altrove. Bisogna capovolgere l’attenzione su chi ha lavorato ad orientare lo sguardo dello spettatore, mi riferisco a chi ha realizzato la messa in scena, alla regista austriaca Jessica Hausner, anche perché una parte decisiva dell’invenzione creativa di un cineasta consiste nell’elaborare una strategia linguistica per catturare gli occhi dello spettatore e condurlo dentro una storia. Che cosa fa nella sequenza d’apertura del film la Hausner? Rispondo subito alla domanda che mi sono posto, prima però riepilogo per chi non sapesse nulla del film di cui sto scrivendo qualche breve accenno alla trama e alle polemiche (poche ma rumorose) suscitate alla sua uscita.
Christine, interpretata con affilato candore da Sylvie Testud, è obbligata da una malattia a vivere su una sedia a rotelle. La ragazza si reca a Lourdes in pellegrinaggio. Non sembra possedere una fede forte. Con lei, oltre ai pellegrini, per lo più anziani, ci sono i volontari e gli assistenti dell’Ordine di Malta. Uno di questi, un affascinante quarantenne, mostra interesse nei suoi confronti. Una mattina Christine, al risveglio, si scopre apparentemente guarita da un miracolo. La guarigione suscita gelosie e ammirazione. Christine cerca di cogliere quanto l’è avvenuto, come un’occasione di felicità, al di là di quanto le potrà accadere in futuro. Sin qui la storia. Le polemiche che in fondo non hanno nociuto a Lourdes si sono concentrate sulla combinazione casuale, grazie alla quale il film ha ricevuto premi da due organizzazioni con fini e intenti tra loro opposti: da una parte un’associazione cattolica (Signis), dall’altra l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Occasione che ha dato modo a Vittorio Messori, giornalista noto per lo zelo religioso e per, tra le altre cose, le interviste a Ratzinger (allora a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede) e a Giovanni Paolo II, di scagliare dalle pagine del Corriere un’accusa contro il “masochismo” di quei “clericali” ingannati dal politically correct della Hausner. Ci sarebbe da ridire sulla leggerezza interpretativa di Messori, come della nostalgia – questa purtroppo presente ovunque in Italia – per un conflitto definito secondo un ordine ben chiaro, in cui indicare a dito atei e devoti, guelfi e ghibellini, rossi e neri.
Torniamo alla prima scena di Lourdes. Inizia con un’inquadratura dall’alto di un refettorio, con delle volontarie dell’ordine di Malta che terminano di preparare i tavoli. Non è un ambiente allegro. Non è triste. Sembra regnare una certa cura nella disposizione dell’arredo ma senza sfarzo. È un ambiente rigoroso. È severo. È geometrico. C’è un nitore di una qualità di non facile definizione, prevalgono le tonalità scure, non è presente la luce naturale, quasi a suggerire una sorta di sommessa attesa, di sospensione dalla vita ordinaria. Pian piano entrano in scena dalla destra dello schermo i pellegrini, parte in contemporanea una musica: l’Ave Maria di Shubert. La combinazione di un brano religioso classico, in cui si canta la “piena di grazia”, con dei paraplegici che fanno il loro ingresso, ci mette subito di fronte ad una ricchezza di senso, tanto da poterlo comprendere come un ironico contrappunto tra due stati, quello visibile di sofferenza dei malati e l’invisibile musicale della Madonna, tra l’”esistente” di dolore e l’”inesistente” celestiale. Oppure, al contrario, quale paradossale partecipazione ad una particolare condizione di Grazia del debole nel corpo e nello spirito, in virtù della sua unione fisica alla stessa sorte di Gesù Cristo crocefisso, con Maria che piange ai suoi piedi sul Golgota, così anche nel film il canto della Vergine lenisce le ferite di chi è sulla sedia a rotelle.
La bravura della regista austriaca non finisce però qui, perché ci troveremmo a guardare un’opera dove l’aspetto intellettuale prevale sul resto. La Hausner fa una mossa geniale. Non ci lascia alle speculazioni. Non si ferma nell’alveo dell’esprit de géométrie, va oltre, ci conduce verso l’esprit de finesse, cioè sollecita la nostra “buona vista” mettendola a contatto diretto con la carne, con la fisicità del personaggio, con Christine stessa. In che modo? Appena tutti si sono sistemati nel refettorio la capo gruppo dà delle indicazioni su orari e appuntamenti della giornata. Terminato il suo intervento la cinecamera inquadra di spalle Christine, lei si gira verso di noi, guarda in macchina e ci sorride. Con questo gesto noi spettatori siamo interpellati direttamente. Ci è chiesto in qualche modo di attivare una dinamica relazionale. Il contatto con il suo volto è anche la rassicurante garanzia per il viaggio-film che stiamo intraprendendo, un film che ci porterà nel mondo dei miracoli e della malattia, dove le regole della razionalità non paiono essere rispettate. Chi entra dentro i rigori di quest’opera, sembra annunciare la regista, non tema, Christine vi guiderà sino alla fine. Christine vi offre il suo sguardo per acuire la vostra vista ma poi vi riconsegnerà liberi al mondo.
Tutto ciò mi ha profondamente commosso. Quello che ho appena descritto inaugura un percorso della visione dove non è possibile vedere ogni cosa, ai nostri occhi non è dato catturare qualsiasi esperienza in Lourdes. Differentemente da quanto ci andiamo convincendo, con una disponibilità d’immagini che nessun altro uomo del passato ha mai avuto, ci sono ancora delle zone inafferrabili a qualsiasi mezzo di ripresa, come per esempio l’incontro tra l&rsq
uo;uomo e il divino, sempre che non si voglia banalizzarlo e quindi privarlo di valore. La Hausner sembra lavorare in questa direzione, consapevole che sono i limiti a permettere la visione, in altre parole: è l’inquadratura che rivela una porzione di realtà e al tempo stesso ce ne nasconde un’altra. Dunque gioca bene la partita dei vincoli, pone dei paletti intorno alle scene riprese che non solo indirizzano il nostro sguardo ma accendono anche il terzo occhio dello spettatore, tanto da favorirne fantasie e pensieri. Ci sono due esempi che ci dicono di questo modo procedere. Il primo è quando Christine sta per essere immersa nelle piscine “miracolose” del santuario. Viene tirata una tenda bianca che ci esclude da quanto sta accadendo, nel momento in cui si stabilisce un rapporto col sacro il nostro sguardo è cieco. Il secondo chiude il film. Christine è tornata sulla sedia a rotelle. La vediamo che guarda verso la sala da ballo e sorride. Non sappiamo cosa voglia mai dire questo sorriso. Non lo sappiamo con certezza. Ognuno può interpretarlo come meglio crede. Quest’ultima inquadratura scioglie il patto sottoscritto con Christine quando lei ha diretto i suoi occhi verso di noi, ci permette di fuoruscire dalla strategia che abbiamo percorso con lei e ci riconsegna alla libera interpretazione dei segni.