[*] – Cerco una categoria con cui capire An Education. L’unica che trovo è quella della favola (convenzionale). Molte volte durante il film – credo a causa di una narrazione che molto affida al primo piano – mi viene in mente Amelie, con il suo “favoloso mondo” (Jean-Pierre Jeunet, 2001). Allora forse, come favola, ne potrei anche recuperare una qualche piacevolezza, passando per esempio dall’indubbio valore delle prestazioni di tutti gli attori: la giovane attrice britannica Carey Mulligan al suo primo ruolo da protagonista e già candidata all’Oscar, l’attore statunitense Peter Sarsgaard nel ruolo di David – il trentenne poco affidabile e un po’ fallito con cui la giovane si coinvolge, dando luogo a un’educazione sentimentale accelerata che travolge i suoi piani scolastici –; e poi Alfred Molina, divertente nel ruolo del padre della ragazza, e Cara Seymour, in quello della madre.
Presentato per la prima volta nel 2009 al Sundance Film Festival, dove si aggiudica il premio del pubblico e il Cinematography Award, il film ha avuto una certa vitalità nei festival e ha ricevuto la candidatura all’Oscar anche come miglior film e per la sceneggiatura di Nick Hornby, il romanziere di Alta fedeltà (High Fidelity) (1995), Un ragazzo (About a Boy) (1998), Come diventare buoni (How to Be Good) (2001) e Non buttiamoci giù (A Long Way Down) (2005), qui alla sua prima prova cinematografica. È principalmente la sceneggiatura in realtà che suscita delle perplessità. Basata sulle memorie autobiografiche della giornalista Lynn Barber, pubblicate sulla rivista «Granta», all’inizio usa il personaggio del padre in funzione oppositiva: un padre retrivo, che penalizza la vitalità e le pulsioni intellettuali della ragazza. Poi diventa capace di comprensione e non solo sa riconoscere le proprie responsabilità, ma anche comunicare alla figlia le proprie motivazioni profonde. Il sesso, questione che nella vita si pone con una certa importanza, ormai riconosciuta, nel film non c’è, non pone problema. La sedicenne vergine e l’uomo più grande di lei risolvono per noi la questione con una battutina delle più avvilenti («tanta letteratura per una cosa che dura così poco»). E archiviano. La ragazza, nel 1961, ha una personalità talmente forte e trasgressiva che fa a pezzi sia la professoressa che la preside. Una macchietta la preside, interpretata da Emma Thompson.
Allora dov’è la verità di un film che si porrebbe anche, pare, come ritratto di un’epoca? Ritratto sì, nei costumi, le acconciature, le automobili, nella citazione di una cultura della trasgressione che comincia a fare capolino, citazione appunto, esteriore, affidata per sommi capi alla copertina di un disco di Juliette Gréco o al nome di Camus. La ragazza avrà il cuore infranto dalle verità nascoste dell’inaffidabile fidanzato. Per fortuna non è rimasta incinta. E potrà, nonostante l’esplusione da scuola, riprendere gli studi con l’aiuto della professoressa zitella che ha fatto dell’emancipazione femminile la sua missione. E la regia? Molto trasparente, nel senso di canonica, con qualche passaggio un po’ laccato. Diverso questo film dalla precedente prova di Lone Scherfig, quell’Italiano per principianti (2000) che, inquadrato nei canoni di Dogma 95, era riuscito ad essere sensibile.