Il cinema italiano, ma anche quello non italiano, è sempre andato in cerca di angoli romani. Per i suoi drammi o per le sue vacanze, ed era in fondo ipotizzabile che gira che ti rigira sarebbe arrivato, un giorno o l'altro, nel posto di cui stiamo per parlare. E' un venerdì di fine secolo, quando il cinema italiano scopre “Prati”: un quartiere di Roma a ridosso del centro, sobrio habitat di certa borghesia romana. Il rione della Rai e del tribunale, confinante con lo stadio Olimpico da una parte e con la maestosità di San Pietro dall’altra. Un insieme tagliente di palazzi alti vecchi di qualche anno, un rettangolo freddino ed elegante, frazionato da rette perpendicolari con arterie ondulate e qualche rotonda piazzetta alberata. Un paio di cinema, più un cineclub che poi ha chiuso, "Il Labirinto", ed una via per lo shopping intitolata a Cola di Rienzo. Tanti uffici, un delitto famoso, Via Poma, più una quantità enorme di studi di montaggio dell'audiovisivo. Bar e pizzerie: Vanni, Antonini, Giacomelli, parcheggio complicato e traffico di giorno, tranquillo la sera, con la borghesia a cena, tra lampade che illuminano calorosamente, libri e divani di una certa qualità. Lo ha fatto quasi per caso, il cinema, per mano di un giovane regista dagli occhi chiari e il viso non armonico. Un timido non bellissimo, ragazzo bravo con la macchina da presa e sfortunato, dice lui, con le donne. Regista col botto al terzo tentativo, dopo un esordio in sordina lanciato subito al festival di Torino, ed un capitolo secondo più efficace, subito promosso a Venezia. Figlio di impiegati Rai, magro, un poco balbuziente, emotivo, dice chi lo conosce e chi ci ha lavorato accanto. Criticato perché osannato, osannato perché accattivante, accattivante perché furbetto. Di sicuro ha partecipato alla storia del cinema italiano recente, guadagnando soldi e facendo chiacchierare pubblico e stampa. Muccino Gabriele, Roma, Italia, 20 Maggio 1967. Lettere senza laurea, allievo di Leo Benvenuti, volontario per Avati e Risi (Marco). Diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Quattro saluti, quattro salti e tre cortometraggi in Rai:documentarista quanto basta, fino al 1998. Poi Ecco fatto, prime isterie e primi nervosismi di un’epoca e di una generazione, discesa, dilagante e incontrastabile, di tradimenti e gelosie, di private finestre per bene squarciate da un’insofferenza patologica. Ma anche garbo narrativo e leggero divertimento, freschezza e attualità. Un film sulla gelosia o forse su un'insicurezza caratteriale in qualche modo autobiografica, il timore d'essere inadeguati che tanta ansia crea, e tanta fatica per arrivare, chissà quando a guardare fino al cinema mucciniano di oggi, ad avere un buon rapporto con la propria identità. E per ciò l'amore, naturalmente sofferto, problematico, tormentato e già calato nella forma di una commedia leggera e liceale. Proprio come nell'opera seconda di Muccino, il film migliore, sinora, del regista romano/pratino. Una commedia adolescenziale divertente, sentimentale e non troppo ambiziosa, ben scritta in collaborazione col fratello Silvio, anche protagonista del film ed allora poco più che bambino.Come te nessuno mai, film di ragazzetti su un vespino pieno di adesivi e scritte pacifiste a pennarello. Film di baci, giochi, anche politici, amicizia e primi amori, mentre i genitori cercano il dialogo e di capire se e dove stanno sbagliando. Siamo alla vigilia dell'esplosione mucciniana, della conclusione della trilogia pratina fatta di tre film in quattro anni, tre appelli ed una sentenza: crescere e maturare è impresa dolorosa, dura e affascinante, più passa il tempo e più diventa insopportabile, quasi impossibile far pace con se stessi. Con L'ultimo bacio c'è meno commedia e più dramma, più angoscia ed affanno. L'imbuto si stringe, l'ossigeno diminuisce, il presente ed il futuro premono e disturbano i sonni, e i sogni dei ragazzoni pratini, uomini nell'aspetto ma tanto affezionati al loro fanciullino. Controversa l’accoglienza della critica, formidabile la risposta del pubblico: “Prati” è ormai spalancata e insieme alle vespine, fricchettone e pacifiste, dei figli di questa strana comune, sfreccia pure qualche nuovissima utilitaria alla moda. Si allargano le porte a vetro degli ascensori e negli androni si scatenano le scenate. Si corre verso un’altra vita, si sogna la fuga. Il lavoro non rappresenta un obiettivo, tutt’altro, è la fine della gioia, lo scontro con le bassezze della vita. Tutto il bello è laddove è impossibile afferrarlo. Né la coppia né la solitudine rappresentano una via d’uscita. Non esistono ideali collettivi; di politica neanche a parlarne. È l’angoscia generazionale, raccontata con le parole, i colori, i suoni e i movimenti di macchina che tutto il popolo può digerire, schematismi e luoghi comuni compresi. Al terzo ciak, dunque, è fatta davvero. L’ultimo bacio guadagna 15 milioni di euro. Tutti lo vedono, tutti ne parlano, la giovane Italia si divide tra il rifiuto e il consenso per un film che può apparire falso o feroce, ma che è girato con abilità e decisione. L’ultimo bacio arriva nei cinema in tante sale e i suoi innamoramenti complicati liberano gli ormoni e le emozioni di tanta plebe contemporanea. Il cinema “per tutti” raccoglie l’esempio e lo trasforma in direzione. Nasce qui il filone giovanilistico che non si è ancora eclissato. Muccino incassa e si difende dai nemici, replica, spiega, gira un altro film che parla di giovani e meno giovani, di amore, ovviamente, naturalmente tormentato, ma anche del presente di una società estremamente telematerialistica. I pregi e i difetti di un film meno convulso dei precedenti sono sempre gli stessi: Ricordati di me compie una riflessione potenzialmente interessante con una confezionatura pregevole, ma quella riflessione rimane superifciale e racconta meglio le categorie che veri e propri personaggi, rischiando di annullare il valore dell'intera operazione. L'etichetta non si stacca, anzi, rimane ben salda sull'abito dell'autore, che prende tempo e poi decide di viaggiare verso quell'America che nel frattempo si è accorta della sua buona mano e del suo talento nel girare. Due film scritti senza di lui, due regie solide e due film interessanti, entrambi con Will Smith, La ricerca della felicità e Sette anime, il primo più compatto e preciso del secondo. Muccino potrebbe restare negli Stati uniti, magari a costruirsi una carriera straordinaria, dimenticandosi magari definitivamente del controverso rapporto con la sua Italia. E invece no, almeno per ora. Prima medita e poi concretizza il suo ritorno e lo fa nel modo più diretto e clamoroso: il sequel de L'Ultimo bacio, dieci anni dopo l'originale. Di tempo ne è passato e l'attesa del film non è così spasmodica. Il risultato è questo: non basta avere una buona mano per fare un buon film. Non basta quando quel film è estremamente parlato, realistico e prosaico. Quando vuole raccontare la società alla società attraverso il quotidiano di esistenze comuni che ambiscono
ad essere specchio per un pubblico italiano popolare e non cinefilo.
Non solo in questo caso, ma soprattutto in questo caso, è necessario prestare molta cura alla storia, e molta attenzione alle sfumature e alla profondità dei personaggi, alla freschezza e alla verosimiglianza non solo delle loro parole, ma anche dei tempi e dei modi in cui queste vengono espresse.In Baciami ancora (che sta aggredendo il paese con 600 copie), al di là di una sceneggiatura magrolina affollata di figure esageratamente ed eternamente disperate, di scene madri che pressano una sull’altra, di continue tempeste esistenziali e relazionali, prima di un’improvvisa, inaspettata, artificiosa e per certi versi ingiustificata quiete finale (l’attimo di respiro prima di una nuova tormenta che magari ci tocchi tra altri dieci anni), non funziona più il rapporto tra l’agilità di quella mano fluida ed un intreccio troppo leggero, tanto strillato quanto superficiale, in alcuni momenti pericolosamente appiattito verso le derive mocciane, in altri sull’orlo di un imbarazzante ridicolo. C’è stato, probabilmente, un errore di strategia alla base di questo atteso ed attendibile sequel: il rispetto esagerato per la lettera dell’originale, per la forma del primogenito fortunato da replicare, assai più curata rispetto alla sostanza del racconto attuale, alla forza dei personaggi di oggi, quarantenni meno credibili dei trentenni di dieci anni fa. Sempre borghesi, sempre confusi, sempre incandescenti, perché sensibili e in cerca della verità, può darsi, ma anche perché ostinati a credere che nella vita si possa vivere senza rinunce, senza sofferenza, in un eterno infantile piacere e desiderio. E se a trent’anni è possibile avere ancora tutto il tempo per sbattere la testa contro la vita, per essere in qualche modo da questa domati, è presumibile che dieci anni dopo si siano fatti parecchi passi in avanti, e che non si debba relegare l’esito della formazione agli ultimi posticci attimi di film. Una maggiore caratterizzazione delle figure umane, in sostanza, perché no, anche calata in nuova forma che meglio avrebbe saputo sostenere questa caratterizzazione, avrebbe dato una grossa mano a questo film, e magari ci avrebbe fatto parlare in maniera nuova di Gabriele Muccino, svincolandolo da quel suo film d’amore così ingombrante e a tutt’oggi decisivo, ancora croce e delizia del regista pratino che continua a raccontare, almeno in Italia, quel suo piccolo mondo moderno che conosce tanto bene. Questo disequilibrio tra forma e contenuto, invece, rende Baciami ancora la copia stanca e sbiadita di un film di successo, discusso e discutibile, un po’ autoriale e molto commerciale ma non privo di una certa importanza e originalità, sia per la tematica affrontata, allora nuova, la crisi esistenzial sentimentale della borghesia trentenne di inizio millennio, che per una certa energia estetica. Una pellicola, L’ultimo bacio, che in ogni caso ha segnato la storia del cinema italiano 2000/2009 : 1) per come ha inciso sul pubblico ; 2) per il solco tematico che ha scavato a tanti film venuti dopo; 3) per la generazione di attori che ha lanciato: Favino, Santamaria, Accorsi, Mezzogiorno, Pasotti, anche se nessuno di loro ha esordito con questo film.
Sembra esagerata, in Baciami ancora, la fiducia nello stile frenetico, vistosissimo e rumoroso da L’ultimo bacio: lacrime e baci, appunto, bagnati da una pioggia che cade col sole dopo dieci anni in cui l’originale non ci era mai mancato, ma in cui non ci eravamo nemmeno dimenticati del suo passaggio. Oggi quella forma vistosa torna per avvolgere un film di relativa autenticità e legato a stereotipi comportamentali risaputi e impacchettati. Lo stile straripa perché i contenuti non fanno da argine e il film scorre come un corpo mezzo morto acconciato con l’abito usato e vistoso della prima volta. Passa col suo vivere troppo problematico e doloroso, col suo carico di tira e molla amorosi vissuti in angoli suggestivi di una Roma affascinante che però non hanno nessun raccordo tra loro. Baciami ancora è di nuovo un film di litigate, di nessun problema legato ai soldi ed al lavoro, di fughe e corse, di indecisione e paura, di pianti e amplessi fugaci vissuti senza gioia, di confusione totale, di crisi nera, insomma. E poi, in un’atmosfera quasi mistica, ecco un raggio di luce e di speranza quando tutto sembrava perduto, quando a terra è ancora tutto fradicio di pioggia. Come quando eravamo bambini e dopo un grande pianto ci sentivamo d’improvviso molto meglio. Dopo che i genitori ci avevano picchiati perché i nostri capricci li avevano stancati e da quella intima rassegnazione avevamo trovato un inspiegabile sollievo. In questa disparità, equivoco tra forma e contenuto si annacquano anche le idee ed i messaggi proposti dal regista. Che comunque ci sono ma nella loro esilità espressiva denunciano i limiti autoriali, non registici, di Gabriele Muccino. Che in sostanza sostiene che se a trent’anni si può ancora pensare che la felicità stia sempre da un’altra parte, in un altrove immaginario da seguire a testa bassa e con dolore, comunque sia, anche se a due passi da noi c’è quasi tutto, a quaranta bisogna ammettere per forza che come la giri la giri, altro non conviene pretendere dalla vita che la vicinanza e la presenza degli affetti primari: la persona amata e i figli. E' forte e sano chi lo accetta, irrimediabilmente debole chi persevera nella rinuncia alla matura normalità. Tutto qui e si poteva dirlo anche in un altro modo, magari anche in collaborazione con altri sceneggiatori.
E’ un bel pezzo, molto accurato, ma la fine mi lascia perplessa. La “matura normalità” se espressa in un altro modo più accettabile è dunque il fine ultimo di un uomo? Ieri sera ho rivisto Clean di Olivier Assayas, è un film che parla di cambiamenti, scelte e responsabilità, ma allo stesso tempo non rinuncia a uno sguardo obliquo, personale e non convenzionale (sempre desiderante) gettato sulla realtà e sugli esseri umani che rimangono individui liberi e originali (non massa da manipolare attraverso esaltazioni e/o repressioni, né umanità dolente spinta solo dalla sopravvivenza senza desideri). E’ chiaro che se fossimo in un film di Rossellini o di Ken Loach il discorso sarebbe un filo diverso. O forse, a pensarci bene, sarebbe più o meno lo stesso.
GRANDE EDOARDO, BELLISSIMO PEZZO: esauriente, onesto, obiettivo. Io ci sarei andata molto più pesante. Ciò che infastidisce di Muccino è il pretestuoso tentativo di tracciare un affresco generazionale esaustivo in cui “la leggerezza” e “la velocità anarcoide” del racconto diventano banalità e qualunquismo schizoide. Senza centro, senza alcuna cognizione del senso etico dell’esserci, di una autentica ricerca della propria identità e di qualsiasi consapevolezza.
Complimenti davvero Edoardo, gran bell’articolo: hai focalizzato il contenuto in modo avvolgente, anche se personalmente vedo quelli che erano i trentenni Mucciniani dell’ultimo bacio, gli avventurosi ritardatari, come persone che, 10 anni dopo, scoprono di saper tenere a bada gli abbagli passionali e di rilassarsi su quegli amori che sono diventati un contenitore, della forma adatta a incastrarsi con la propria realtà, a raccogliere i propri sogni, le proprie aspettative, i propri tempi.
Io in loro non vedo banalità, non vedo qualunquismo,vedo lo sdoppiamento delle categorie di personaggi: quelli che hanno smesso di cercare la propria realizzazione fuori da loro stessi e quelli che hanno investito negli anni, aspettandosi di riscuotere, forse un pò egoisticamente, la posta che avevano puntato e che gli viene “sorprendentemente” negata.
Ho apprezzato molto quest’incontro a metà strada. Anche se, come dici, l’isterismo e la disperazione, dopo anni, non appartengono più a quei personaggi e risultano poco realistici, un pò pesanti.
In ogni caso mi rendo conto che questo è solo il mio punto di vista, quello di chi si limita ad applicare il proprio filtro e forse, ciò che più m’impedisce di fare una buona critica (oltre alla competenza) è proprio il non riuscire ad andare oltre le mie esperienze, oltre quel che ho vissuto.
Un abbraccio