di Fabrizio Croce/ Quando Adam Driver, che in Storia di un matrimono interpreta Charlie, ad un certo punto si alza dal tavolo del locale newyorkese dove sta conversando con degli amici, e , sulle note di un pianoforte, intona una canzone che si intitola Being alive, probabilmente il film trascende il racconto della fine (o della trasformazione?) di un amore e della separazione che ne consegue: questo attore dalla fisicità che si espande maggiormente in altezza e che riempie lo spazio con i lineamenti del viso squadrati e un po spigolosi, con due occhi neri perforanti e intensi, va dritto al nocciolo della questione e, servendosi delle parole struggenti e dirette di Stephen Sondheim, il poeta caldo e malinconico dei grandi musical di Broadway (Ricordate Send in the clowns da A little night music ?) da voce e corpo, con verità e presenza, ad un bisogno: perché per essere vivi abbiamo bisogno di essere amati ,con tutte le contraddizioni che questa disponibilità comporta- qualcuno che mi abbracci troppo forte e che mi ferisca troppo a fondo. E l’allitterazione in Inglese “Alone is alone not alive” rende ancora più esplicita la scelta di campo nell’ affermare e portare all’esterno, sul palcoscenico del bar della vita, la fragilità e la paura di rimanere da soli e, con essa, quella della morte ,not alive….
Il vocione ora tenorile ora tremante di Adam suscita una sensazione viscerale di libertà , perché raramente al cinema questa istanza è stata portata , in particolare dagli uomini, con un equilibrio così sottile tra la forza e il carisma della performance e la delicatezza e lo smarrimento della ferita, visto che l’educazione patriarcale ci ha insegnato a reprimere e a vergognarci ,o , peggio, a rendere infantile e un po vigliacca la sfera delle emozioni e della tenerezza.
In una tragicomica scena di Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca, rivisitazione del feuilleton nazional-popolare firmata Ettore Scola, la fioraia Monica Vitti , in fuga dall’indecisione per l’amore tra il muratore Marcello Mastroianni e il pizzaiolo Giancarlo Giannini, cerca di spiegare al ricco spasimante di turno, un rozzo macellaio arricchito, la differenza tra le “cose toste” , “che si toccano” , come le parti interiori di un bovino, e quello che sta comunque dentro un essere umano, che non si vede e non si tocca, ma può essere ugualmente ferito, ovvero “l’anima”.
In un simbolico e audace collegamento tra cultura bassa e cultura alta , tra fotoromanzo della vita e filosofia della psiche, potremmo dire che Monica inconsapevolmente o, meglio,inconsciamente introduce il suo Ambleto di Meo ,nome quantomai evocativo nel suo tono grottesco, al concetto jungiano di “Anima” , almeno nella fase di apertura , intuizione e ricezione del mondo delle emozioni , dell’empatia e del desiderio. Certo nel tempo, da Ambleto ad Adam/Charlie , è cambiata la narrazione che il cinema ha fatto di questa zona d’ombra e grande rimosso delle galassie, spesso desolate, in cui gli uomini hanno dovuto imparare a stare al mondo per poter sopravvivere. Ad ammetterlo era stato uno dei primi e più abissali esempi di uomo/anima di celluloide , quell’Erland Josepheson protagonista della madre di tutte le Marriage Story, le Scene da un matrimonio Bergmaniane : “Io mi conosco molto poco” , sussurrava in faccia alla moglie/ancella Liv Ullman, svelandole il desiderio per un’altra donna e la voglia di sperimentare qualcosa di diverso rispetto al razionale e anestetizzante schema domestico che ci rende degli “analfabeti” in fatto di sentimenti , come dice in un successivo, intenso momento di confronto, davanti alla carte del divorzio da firmare.
Eppure la variazione di Adam Driver sulla figura maschile archetipica dell’uomo dominante e narcisista, qui amplificato dal fatto contestuale che è un acclamato regista prodigio del teatro off newyorkese, possiede la comunicatività e la colloquialità di chi si sta rivolgendo personalmente ad ognuno di noi, spettatori uomini, nella solitudine della sala e, in particolare nel climax del momento di “Being Alive”, ci prende per mano e ci porta davanti al microfono della vita ad amplificare l’espressione di quella necessità, quando invece lo Johan/Erland di Bergman arrivava più sgradevole e ripiegato su stesso, anche perché più maturo e più ferito.
Noah Baumbach, che Marriage Story lo ha scritto e diretto rielaborando forse, o almeno così piace immaginare a noi sedotti dal cinema come imitation of life, il matrimonio con Jennifer Jason Leigh e l’esperienza del figlio avuto insieme, non fa comunque di Charlie il contro-canto crepuscolare e rancoroso alla scelta di Nicole/Scarlett Johansson: è lei, infatti, che fa accendere l’allarme rosso della frustrazione, dell’incomunicabilità, della fine del desiderio. O magari, più semplicemente, segnala il passaggio da una qualità di affetto ad un’ altra; dall’innamoramento e la passione che rendono creativi ed entusiasti anche dentro la routine di una convivenza, a un sentimento più sbiadito e debole, che non ha più la forza propulsiva per continuare a costruire un progetto di vita comune.
La maestria di Baumbach, della sua cristallina scrittura di testo e regia, risiede proprio nel far vedere le smagliature tra una tela che si sta tessendo, mantenendo comunque sempre in contatto le trame di Charlie e Nicole. E il lavoro che fa la Scarlett su quest’ultima piccola, coraggiosa, vibrante donna del disagio domestico fa risalire i fili della memoria alla Scarlett del 2003, con Charlotte, la giovane sposa un po’ alienata che vive il primo soffio al cuore nell’incontro con il laconico e carismatico attore maturo sul viale del tramonto interpretato da Bill Murray in Lost in translation: lo sfondo era quello di una Tokyo un po allucinata un po grottesca e l’evoluzione dallo sguardo perso di Charlotte/Scarlett all’espressione intensa, presente, spontanea dell’ultimo close up,con le parole non udibili confidatele dal personaggio di Murray nel celebre finale, sembra proprio aver trovato la giusta, feconda maturazione nell’interpretazione della Nicole di oggi. È sorprendente e toccante vederla, dopo la fase da credibilissima ninfa sexy per Woody Allen e da supertosta icona action/fantasy per film indie (Under the skin) e mainstream( la serie di Avengers), in una fisicità mostrata coraggiosamente anche nei suoi difetti, come la bassezza , i fianchi un po larghi, il volto senza trucco e un po invecchiato. La capacità di apparire sotto una prospettiva e una luce diversa da quella glamour e luccicante dello star system di questo primo ventennio del XXI secolo e di cui forse lei, Scarlett di cui non è necessario specificare il cognome, come lessi tempo fa su una rivista, è stata la supernova più splendente, la parabola più emblematica.
Ma oggi non poteva che apparire così, come Nicole, un’ attrice che riconosce di aver “sacrificato la propria vitalità per poter aumentare quella del suo compagno”( e sempre nella logica dell’ imitation of life Jennifer Jason Leigh è “rinata” a livello di carriera proprio dopo il divorzio da Baumbanch, grazie a The Hateful Eight di Tarantino).
Il godimento di Marriage Story non passa però solo attraverso l’evidente fascinazione che l’autore ha avuto nei confronti dei suoi magnifici attori, come emerge dai piani sequenza , dai campi-controcampi, e dai primi piani che ne celebrano il talento e le bellezze non patinate o convenzionali ; ci sono una serie di tocchi felici che spostano per un attimo il film dall’impianto di dramma da camera a quello di commedia di costume, come la figura dell’avvocatessa guerriera-femminista- sexy incarnata con precisione chirurgica da una stupenda Laura Dern la quale, dopo tante eroine lost highway per David Lynch, si prende la rivalsa della donna pragmatica e vincente ( “Non prendetevela, prendetevi tutto” come diceva Ivana Trump nello schiocchino e divertente “Il club delle prime mogli”).
Restano poi delle sequenze, brevi e silenziose, di dettagli, quelli in cui si trova Dio, secondo l’architetto Ludwig Mies van de Rohe, e, aggiungiamo, anche il senso di un racconto e della sua rappresentazione: Nicole e Charlie che chiudono, insieme eppure separati, uno da una parte e uno dall’altra, il cancello della casa di Nicole; Charlie che in una prima scena spegne la luce senza accorgersi che nella stanza c’è Nicole, mentre in una seconda situazione simile , dopo un litigio, pur vedendola lo fa ugualmente stavolta con intenzionalità; Infine, dopo l’amore, la separazione, il dolore, un gesto di Nicole nei confronti di Charlie che dice come , nonostante tutto , si possa continuare ad avere attenzione e cura per qualcuno che si è incontrato e a cui si è voluto molto bene nel corso della propria vita.
In un anno, non solo cinematografico, impregnato di violenza , di esasperazione e di comunità aggregate dal leader che grida più forte, un atto concreto di gentilezza e di amore.
Perché, come diceva Francois Truffaut, il tatto è una qualità da rivalutare.