[**] – Il film inizia con una fine, la fine fisica di Sergio Rubini perfettamente invecchiato che, morente in un letto di ospedale, recita le (famose?) ultime parole – molto poco sacre per la verità – al figlio (Fabrizio Gifuni) tornato da chissà quale posto molto all’avanguardia. Il film è una ricostruzione in un percorso sdoppiato. Per lo spettatore è la ricostruzione del vero motivo di quelle parole (chiaro quasi subito, del resto): si capisce che c’è qualcosa da risolvere e questo qualcosa dà l’input alla vicenda per avere luogo, è la scusa per iniziare un viaggio alla scoperta del quid. Per il personaggio, una ricostruzione dei fatti, l’occasione per fare i conti, per ricordare e capire, e finalmente per chiarire. La faccenda si trasforma allora nel pettine a cui dulcis in fundo vengono i nodi: i due percorsi si sovrappongono. Come già ne La terra, Rubini concentra la sua attenzione su una tematica forte: il sud delle origini, un ritorno da lontano per occasioni luttuose, ma utili a fare luce su questioni che, per quanto passate, restano irrisolte e imprescindibili allo stesso tempo.
Le musiche di Piovani, presenti fin dalla prima scena, contribuiscono ad un’immediata, precisa connotazione anticipando l’amarezza dello svolgimento. La scena seguente si apre dall’alto, in campo lungo, su una piazza di un paesino pugliese, di pietra e cemento, chiara e bianca, con un bar dalle sedie a cordoncini di gomma colorati. Sergio Rubini (ora sulla quarantina) è il padre di un bambino di sette anni, che ha una quantità di primi piani giustificati solo dal protagonismo del suo punto di vista. La regia, abbassandosi alla sua statura, resta spesso infatti ai busti degli altri, che continuano a muoversi e a parlare. I suoi occhi, due noccioline di castagna scura che capiscono, collegano, iniziano a guardare le donne. La storia si svolge negli anni Sessanta in una Puglia di provincia distrutta dalla disparità sociale e stranamente (in senso statistico) attraversata dall’arte. Rubini vuole e prova a fare il pittore, ma come lavoro vero fa il capostazione (le inquadrature della stazione sono tra le più belle) perché, da ragazzo, non aveva avuto i soldi necessari per fare il liceo artistico, che nel paesino sembrerebbe cosa molto quotata. Insipidi e ambigui critici d’arte e avvocatelli molto benvisti gli fanno da contorno con la loro labile aura di sapienza. Personaggi che, più che essere rappresentati come cattivi, vengono ridicolizzati all’occasione, ad esempio mediante l’utilizzo di abusati termini francesi. Il loro ruolo migliore, in definitiva, sembra essere quello di maestri delle chiacchiere, capaci di un’apparentemente ineccepibile “aria” fritta e poco altro.
La prima parte del film ruota attorno all’evento della mostra personale di Rubini che, per una serie di circostanze indipendenti e a causa del giudizio critico negativo, si rivela un fallimento. Intanto la musica di Piovani continua, nel momento della sua prima, vera, umiliazione (dal dentista), nei momenti più amari. La seconda parte è costituita dalla chance che Rubini riesce ad ottenere (dai critici di cui sopra) per rimediare, per tentare una seconda volta la copia dell’ “Autoritratto con bombetta” di Cézanne che proprio non gli riesce.
Parallelamente a questa, che è la linea principale del racconto, una serie di sottointrecci ben caratterizzati e legati a moglie (Golino), fratello della moglie (Scamarcio), figlio (Guido Giaquinto). Per quanto sia apprezzabilissima la recitazione in “sud mood” di tutti e tre con una notevole presenza di frasi tipiche che fa sempre piacere sentire ogni tanto (“non mi fare venire i cinque minuti”, “sissignore”, “Stù cretin”, “non pitto più”, il gesto della mano sotto il mento per dire “niente, proprio non ne vuoi sapere”, e diminutivi vari), la parte un po’ sofferta e rauca della Golino resta senza dubbio la cosa migliore del film. L’attrice interpreta meravigliosamente i modi di fare e di dire di una tutto sommato distinta donna del sud, sulla difensiva rispetto ad Anna Falchi, fintamente emancipata donna del nord. Nella realtà, padre campano e madre greca: il sud le resta impressionato dentro in modo più che tangibile.
Nella seconda parte del film, quella della chance di Rubini, la posta in gioco è molto alta: è lo scopo di una vita, la reputazione di un uomo, e l’uomo di cui si parla è uno di quelli orgogliosi, di quelli che non dimenticano, che trascinano la questione fino in punto di morte (o almeno, così ci viene detto per tutto il film). Proprio per questo, non si capisce perché il film opti per un colpo di scena di cui però non si rintracciano le giustificazioni scientifiche. I meccanismi sono smascherati (e in questo modo rivelati allo spettatore) dal solo protagonista (il figlio), che tiene tutto per sé. A quel punto valeva giocarsi il tutto per tutto: ogni conseguenza avrebbe avuto un prezzo minore rispetto alla vittoria personale, che prezzo non ha. Era stata fatta la cosa migliore, quella più intelligente. I fini avrebbero giustificato i mezzi mai come questa volta. Ma il “sistema” non cambia, perché i morti che sanno non hanno voluto e i vivi che restano fanno altrettanto. Il punto è che, quanto appena detto, filerebbe solo se il film avesse voluto parlare di qualcosa di diverso. Ma l’importante era recuperare la chiarezza sui fatti, con tutte le conseguenze del caso. Il resto non conta.
Nonostante rimanga il dubbio che il film avesse realmente la necessità di prendersi il suo tempo per decantare al meglio le conseguenze del suo stesso sviluppo, è come se facesse parte di quella categoria di film con due finali dove, dopo il primo, si inizia di nuovo, ma con meno energia di prima. Passi due volte dal via, ma la seconda con un giro in più. E la stanchezza si sente.