di Alessia Brandoni/ Facendo una prova, si vuole tentare un paragone tra Jean-Luc Godard e Jacques Doillon a partire dalla figura dell’insieme. Stando attenti a come la macchina da presa si rapporta a ciò che filma, vale a dire alla sua posizione rispetto agli attori, all’ambiente, all’immaginario; ma prima ancora dando credito ad una constatazione, insieme cocente e avverabile, che Franz, in Bande à part, si ritrova a dire a Odile dopo che il colpo è fallito: “Hai mai pensato che fosse strano che le persone non formassero un tutto? Che non si mettessero insieme, che restassero separate, ognuna per proprio conto, diffidenti e tragiche”.
L’esperimento di questo confronto tra due autori che hanno inventato il cinema, istituendo nuove forme rappresentative e linguistiche, ci porta a dire che, quanto alla figura dell’insieme, Doillon sembrerebbe averla messa al centro del suo modo di fare cinema. Ovvero la rappresentazione della possibilità, al tempo stesso relazionale e politica, di mettersi insieme. Di far circolare dubbi e domande. Di mettere la mdp al centro di una stanza o un’aula di scuola o di un prato o un frutteto (luoghi topografici del cinema di Doillon) e di far interagire tutti gli attori in campo. Da una parte suggerendoci, forse, che uno sguardo puramente individuale è illusorio, perché alle spalle e intorno a ogni regista (e non solo) ci sono mille esperienze, dialoghi -e anche qui, quante volte che parliamo con qualcuno stiamo ‘davvero’ parlando con questa persona, e non almeno in parte con ciò che ci sta alle spalle o che ci aspetta da qualche altra parte?-, e ancora mille visioni, conversazioni, fraintendimenti e fantasmi; dall’altra che ciò che occorre fare, e mai dimenticare, è dare credito, prima del resto, ai corpi e agli affetti, alle reazioni che escono fuori in una data situazione appunto limitata e creata da uno sguardo parziale, quello del regista, ma che la sfida e la provocazione è proprio quella di aprirsi all’incontro, anzi di legarsi ‘a mille fili’ con ciò che accade. “Sì, è vero una parte dei miei personaggi ha bisogno di guardare e di farsi guardare dall’altro, non esistono senza lo sguardo dell’altro: molti dei miei personaggi sono talmente deboli che hanno la sensazione di non poter vivere che attraverso gli occhi dell’altro. Io stesso non so se si possa esistere senza questo sguardo che proviene dall’esterno. C’è sempre un duello all’interno dei personaggi e tra loro e la mdp, c’è sempre una posta in gioco. Il film gioca anche sulle distanze tra i personaggi che si ritrovano, che si riattirano, come i movimenti irregolari delle onde del mare. I personaggi che non si muovono, che rimangono fermi nello stesso posto, chiusi dentro l’ennesima illusione di inattaccabilità, sono per me insostenibili. Possono però risultare insostenibili ad alcuni anche i miei personaggi che hanno continuamente bisogni gli uni degli altri e tutti della mdp“, così Doillon in una conversazione con i tipi di Film-critica.
Mentre Godard, già nel formulare la frase del suo alter-ego Franz, riportata all’inizio, finisce per fare due cose, non neutre: definire una possibilità per negazione; assimilare i termini ‘insieme’ e ‘tutto’. L’insieme lo osserva ponendosi da un altro (alto) punto di vista. “La mia storia finisce qui. Come in un romanzo a buon mercato. Nell’istante superbo dell’esistenza in cui nulla declina, nulla degrada, nulla delude. Ed è in un prossimo film che ci verranno raccontate, in CinemaScope e Technicolor stavolta, le nuove avventure di Odile e Franz nei paesi caldi”, così infatti termina il film, con lo stesso Godard, coerentemente in voce off, che riconferma l’impossibilità delle passioni –‘diffidenti e tragici’-, e che afferma la fuoriuscita del punto di vista del regista –soggetto che racconta l’oggetto che sfugge, cinema che ingloba e sostituisce la realtà, regista che guarda -ammirato o crudele- la sua donna-feticcio. Si tratta, infatti, anche di possesso.
E’ appunto una questione di sguardo, pensiamo. E per Godard –quel Godard, almeno, anche se la meravigliosa Agnès Varda, con il suo poetico e politico Villages, Visages, ancora nel 2017 non ha mancato di ricondurre l’ex amico a una posizione esemplare -“sei un genio, ma sei anche un cane”- la realtà e i personaggi rimangono, pregiudizialmente, oggetti che il soggetto-regista guarda e analizza, ammira e idealizza, manipola e ogni tanto spia. La stessa magnifica apertura al reale, “alla Lumiere” come giustamente ha notato Adriano Aprà, con cui Godard ci ha iniziato a un nuovo modo di guardare fin dal suo esordio, rimane, infatti, in buona parte funzionale e subordinata all’idea, figura prediletta del regista –idee, al tempo molto considerate e discusse, su cose come imprevedibilità, tempo dell’evento, momento qualunque assunto a elemento principale del racconto, indecidibilità e indeterminatezza (che bei tempi!).
Godard ha una paura fottuta -si sta esagerando!- della passività, di riconoscere di essere assoggettato a qualcosa di esterno, che non controlla, e finisce per non fare-insieme. Mentre Doillon dell’indecidibilità, della paura, ci sembra che non ne abbia un’idea definita ma che piuttosto ne faccia esperienza (tra set e vita). In questo modo forse ritrovando anche la funzione classica della rappresentazione, in cui paura e pietà erano le due emozioni con cui la tragedia si misurava rispetto ad eventi innaturali o catastrofici. Ebbene, mutatis mutandis è la relazione che ci fa paura. Sicché Doillon, tramite il contesto finzionale e una posizione dello sguardo ‘orizzontale’ (dentro e fuori la metafora), ci fa fare esperienza di questa paura -dell’incontro, della passività, della dipendenza, della separazione- tanto quanto ci fa recuperare il sentimento della pietà -verso l’insicurezza, la sofferenza, l’infanzia e la vecchiaia, l’esclusione e la guerra. Ma mantenendo uno scarto, un’eccedenza diremmo. Non (ancora) classica. Che è quella di metterci dentro quell’insieme, quell’interdipendenza, quel campo di forze, quell’unità di tempo e di luogo (tramite il piano-sequenza), in cui, tutti insieme, si finisce per produrre qualcos’altro, di necessario e immaginativo allo stesso tempo -dove il legame con l’altro sembra diventare quasi una seconda natura.
Allora l’indecidibilità di cui parla Gilles Deleuze a proposito del cinema di Jaques Doillon ci diventa forse più chiara. Vale a dire che la rappresentazione della difficoltà di scegliere (posizione impossibile) tra due ambienti opposti in quanto si è presi dentro lo spazio e il tempo di (si è ‘affetti’ da) entrambi i campi-insiemi è una figura reale e interessante, cui dare spazio. Con ciò volendo suggerire che sia l’insieme (il sociale), la sua composizione qualitativa, tutto al contrario di un motore immobile, a muovere, spostare e oscillare i nostri bisogni, e che sia la stessa figura dell’insieme quella, più felice e adeguata di altre, per mezzo della quale immaginare e organizzare modi diversi (possibilmente più felici) di soddisfazione umana.
Or a whipping boy, someone to despise
Or a prisoner in the dark
Tied up in chains you just can’t see
Or a beast in a gilded cage
That’s all some people ever want to be