Quindici anni fa usciva Pulp fiction in Italia. Era il 16 dicembre del 1994.  Il maggio precedente riceveva la Palma d’oro al festival di Cannes. Sempre in quello stesso mese dello stesso anno dell’ambito premio, per avere presente il contorno, il primo governo Berlusconi s’insediava a palazzo Chigi, esecutivo dalla durata breve: il 17 gennaio del 1995 cadeva.

Era la rivelazione di un talento, quello di Quentin Tarantino. Era anche l’imporsi di uno stile, di un marchio di fabbrica. Il mondo poteva tranquillamente dividersi in due: quelli che avevano visto Vincent Vega e Mia ballare in una gara di twist sulle note di You never can tell di Chuck Berry, con il caratteristico movimento delle dita divaricate che passano sul volto, divenuto presso un classico gesto di riconoscimento tra cultori o meno dell’autore americano. E coloro che al contrario erano al di fuori del cerchio magico evocato dagli ironici, stralunati, violenti, teneri e brillanti personaggi disegnati sullo schermo da Tarantino.

Ricordo ancora l’eccitazione che scorreva impalpabile tra i miei compagni cinefili quel venerdì della “prima” in sala, quando ci precipitammo tutti al penultimo spettacolo. Potevo riconoscere nelle diverse file i volti noti del giro dei patiti di cinema, lì puntuali per partecipare e godere al rito sacro e ipnotico delle immagini in movimento, così potenti dal cancellare almeno per un paio d’ore l’ordinario della vita. I miei compagni cinefili erano estasiati dai dialoghi che correvano liberi, privi di freni logici riparatori e dunque impastati d’impossibile, tanto da poter essere solo all’interno di un film. Come nella scena in cui Jules spiega a Zucchino che quando uccide una persona gli recita il passo Ezechiele 27,17, passaggio che in realtà nella Bibbia non esiste. O anche i continui rimandi al cinema stesso disseminati a copia e incolla nell’arco della narrazione, con particolare predilezione vintage verso quelle pellicole confinate in generi considerati minori e giustamente di scarso valore, come pure lo sguardo ampio e onnivoro (anche se forse poco ruminante) che ne faceva irrimediabilmente un nostro simile. Ridevamo, anche se era un riso nervoso, quasi un’esplosione, provocata da un agente esterno: “quel nostro simile” con una carica in più e qualche pensiero in meno.

Con Bastardi senza gloria, l’ultimo di Tarantino, forse già uscito dal circuito delle sale, quel clima di quindici anni fa –  quello di “alla prima di Pulp Fiction” – non c’è più. Qualcosa è cambiato, non tanto nei suoi film che restano all’incirca gli stessi, quanto intorno a noi, c’è un diverso modo di accoglierlo: una sorta di maturata compostezza che spinge a guardare il colonnello nazista Hans Landa, interpretato superbamente da Christoph Waltz, con educata e silenziosa complicità. C’è la strana sensazione, mentre le scene del film scivolano via delimitate da ampi capitoli, di guardare un oggetto non più presente. Da cosa dipende? Dalla sotterranea malinconia, da nessuno confessata, che pervade in tempi di crisi il corpo sociale, tale da spingerci ad archiviare mentalmente in un angolo lontano della nostra memoria qualsiasi immagine ci capiti sotto gli occhi? Sembra che sequenze, attori, musiche e tutto il resto sopravvivano pochi istanti alla nostra visione, che lo sguardo non riesca a trattenere nemmeno l’essenziale, lasciando così prevalere il principio di necessità iscritto nella durata del film, quel meccanismo che lo confina ad una particolare esperienza.

Forse non vediamo più delle opere-film, ma semplicemente accumuliamo immagini, in questo caso le difficoltà economiche che stiamo vivendo (chi più, chi meno) non avrebbero alcun rilievo, ci troveremmo di fronte ad una deriva culturale di lungo periodo che coincide con l’emergere di un nuovo paradigma di visione, in cui l’azione o l’interazione prevalgono. Ma potrebbe anche darsi che l’insieme di procedimenti messi in opera nei 153 minuti di Bastardi senza gloria siano riconosciuti  inconsapevolmente in noi quale frutto di ore e ore di esposizione audiovisiva, anche grazie al riproporre da parte di Tarantino di situazioni tipo, dandogli però uno sviluppo eccentrico, come a percorrere il potenziale impossibile iscritto tra le pieghe della finzione.

Non ho una risposta unica e chiara su quanto accaduto in questi ultimi quindici anni della nostra pratica di spettatori cinematografici. Non so di preciso. Potrei pensare, al contrario di quanto scritto finora, che c’è in Bastardi senza gloria una gioia per le immagini in movimento che è difficile da trovare in un altro autore, un’aderenza alla fiction da sospingerci verso lo schermo quale solo mondo possibile, ultimo orizzonte di realtà che cancella una volta e per sempre le resistenze dei corpi. In fondo, che una squadra speciale di soldati ebrei riesca a portare a termine la missione di eliminare i leader del Terzo Reich, non provoca particolari turbamenti, molto peggio sarebbe stato per i nostri sogni notturni immaginare la sopravvivenza di Hitler, consegnarci una vittoria del nazismo poteva esser ben più preoccupante.

Tuttavia Tarantino, che è un erudito-autodidatta (lui stesso si definisce in questo modo), con la pratica conseguente di accumulare materiali senza poi doverli esporre secondo una gerarchia di priorità riconosciuta, grazie forse a questa sua libertà, ci regala un finale in cui rovescia l’idea di un cinema da subire in una comoda e costrittiva poltrona (l’esempio potrebbe essere Orgoglio della nazione, il film proiettato davanti ai nazisti) in un cinema performativo. Con la vendetta escogitata da Shosanna Dreyfus, interpreata da Mélanie Laurent, i limiti dello schermo sono superati e l’immagine stessa si fa tridimensionale e diventa corpo-azione.

I fantasmi dello schermo non evocano più semplicemente un pericolo, non inducono solo a pii desideri irrealizzabili, non ti permettono di uscire tranquillamente dalla sala, stropicciare gli occhi ancora increduli e tornare a vivere come prima di essere entrato alla proiezione. Quelle ombre sulla tela si trasformano nel contrappasso ironico del reale che precipita sopra i gerarchi nazisti seduti nelle poltrone e di conseguenza verso qualsiasi altro spettatore, anche se per noi è più facile scansare il pericolo, non indossando le infami divise dell’esercito tedesco di allora. La trappola di fuoco di Shosanna, da lei annunciata in un’autoproduzione filmata, con la partecipazione non prevista della squadra speciale di ebrei, trasformano la platea in un fronte di battaglia che termina con l’esplosione della sala cinematografica, quasi a sancire una volta e per sempre, senza troppi rimpianti, la fine di un intero sistema di visione.

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