Credo che la bibliografia su questo film possa tranquillamente tappezzare l'intero continente europeo. A bout de souffle è uno di quei film eterni, continuamente ricollocati, citati e chiamati in causa. Nei dibattiti del quarantennale è stato addirittura posto all'origine, come un seme fecondo di un rampicante invadente, dell'immaginario che esaltò l'antimoralismo e l'antiformalismo dei giovani sessantottini. Aggiungiamo noi: quegli stessi giovani, però, assimilarono e si identificarono di più con il romantico e sognatore Truffaut che con l'ostico, irriverente, sperimentale e tautologico Godard.
Oltre le speculazioni critico-filosofiche, di Fino all'ultimo respiro ci piace ricordare che è il primo lungometraggio di Godard dopo i corti Operation beton, Une femme coquette, Charlotte e Veronique, Charlotte et son Jules e Une histoire d'eau; la sceneggiatura fu scritta da Truffaut un anno prima e poi donata all'amico; Claude Chabrol è accreditato come consigliere tecnico; è stato girato in soli 23 giorni tra l'agosto e il settembre 1959; Belmondo era già affermato e, nel film, il suo personaggio si chiama anche Laszlo Kovacs come il protagonista di A doppia mandata di Chabrol, appena terminato; Jean Seberg era già una star hollywoodiana e costerà un sesto dell'intero budget; il film è dedicato a due case di produzione di B movies, l'americana Monogram Pictures e l'inglese Hammer Film; compaiono in ruoli minori i cineasti Philippe de Broca, Jose Benazeraf e il maestro Jean-Pierre Melville (Frank Costello faccia d'angelo) nella parte dello scrittore Parvulesco; compaiono, inoltre, i critici Labarthe, Douchet e Domarchi e lo stesso Godard nella parte del delatore. Infinte le citazioni cinematografiche, letterarie, pittoriche, musicali e anche politiche.
Se Truffaut era partito da un fatto di cronaca per scrivere un noir di genere alla Hawks, Godard ammetterà di avere frullato il tutto con Alice nel paese delle meraviglie. E non è troppo una boutade: il Lewis Carroll linguista e saggista sarà per lui un punto di riferimento costante. La carica esplosiva di Fino all'ultimo respiro (unico capolavoro della Nouvelle Vogue ad aver avuto un remake hollywoodiano) sta proprio nella sensualita’ e nella liberta’ del linguaggio piegato alla storia e alla situazione senza debiti e riverenze ne’ verso i canoni classici ne’ verso le teorie di Bazin. Eppure, visto con il senno del poi, l’esordio del maestro francese risulta addirittura scontato. Esso è fin troppo esattamente il frutto di una lunga militanza spettatoriale-critica-autoriale nella quale tutto era stato enunciato, scritto e detto, prima che realizzato; e nella quale tutto il gruppo direttivo dei Cahiers (Godard, Truffaut, Rivette, Romher, Chabrol, Bazin) aveva scelto liberamente testi e maestri, autodeterminandosi nella teoria e nella pratica. Fino all'ultimo respiro è un mirabolante esempio di coerenza tra dichiarazioni d’intenti e risultati pratici, ma è ben lungi dall’essere il miglior film di Godard.