Stupisce, aggirandosi in rete, l’insospettabile numero dei cruscanti della pellicola. Quelli che, per esempio, sul board IMDB dedicato a Public Enemies, buttano lì che la fotografia in HD sembra quella di una ripresa matrimoniale, e che farebbero meglio loro con gli amichetti della scuola di cinema. Ma, a parte questi geni di cui siamo non poco curiosi di verificare le somme opere, il dibattito ferve appassionato (pur se non sempre appassionante), tra i cinefili, come tra gli addetti ai lavori.
C’è chi s’è affidato con entusiasmo alle nuove possibilità del mezzo, come i cercatori di verità ai tempi delle apparecchiature leggere in coincidenza della nascita della Nouvelle Vague. Anche se il primo fautore del paradigma digitale è stato George Lucas con la sua seconda (o prima) trilogia spaziale, la pregnanza formale delle riprese in hd va al di là di un immaginario che si identifica con le CGI e il concetto di immagine totalmente plasmabile in postproduzione e non più dipendente dal profilmico. L’altro suo atout fondamentale, infatti, è proprio nella rivoluzione che introduce in fase di riprese, con la possibilità di girare una quantità di materiale prima impensabile, di alleggerire il parco luci, di avere subito a disposizione ciò che si è girato, perché – come dice FF Coppola – non è che sul set il regista debba per forza scontrarsi con gli stessi problemi di 50 anni fa. D’altronde c’è chi pensa, come Luca Bigazzi, che le difficoltà pratiche e il concetto di spreco legati alla pellicola, stimolano la concentrazione di chi è sul set, laddove una eccessiva facilitazione indurrebbe a una rilassatezza creativa. Opinione eticamente rispettabile (quanto quella dei montatori sospettosi sulle troppe alternative a buon mercato di tempo e fatica offerte dall’Avid). Ma andate a dirlo a Michael Mann che deve tirar fuori due ore e mezzo di film in tre mesi e ha bisogno di tonnellate di ciak per raggiungere quello che vuole da ciascun take.
Le altre resistenze al paradigma digitale toccano, invece, in pieno il tasto stilistico. In un arco che può andare da un Bong Joon-ho rispettoso degli esperimenti manniani, ma troppo innamorato della pellicola per rinunciarvi, al rifiuto drastico di un Tarantino che spara a zero sulla nuova estetica, gettando dubbi sulle capacità artistiche di Dion Beebe (e ora penserà che pure Spinotti s’è rincoglionito, si suppone).
A noi pare che Mann sia l’unico cinesta ad aver capito fino in fondo le possibilità dell’HD di rivelare (disvelare) il reale. Public Enemies è come le candele di Barry Lindon che si fanno esperienza percettiva totale. Essere dentro un’altra epoca, dentro le sue frequenze atmosferiche, le sue onde di energia, con l’immagine a vibrare in perfetta risonanza. Dice tutto la prova di ripresa fatta in fase di preparazione: in pellicola, dice Mann, sembrava di vedere un film sugli anni 30, in digitale sembrava di essere negli anni 30. L’impatto visuale di PE è così clamoroso (e clamorosamente fraintendibile) perché si ha l’esatta impressione di aver squadernata di fronte una serie di frammenti di vita dell’epoca, immersi nel movimento sentimentale incessante che è il marchio di fabbrica manniano. Non è l’atmosfera ricostruita dei film in costume come li abbiamo conosciuti fino adesso. È (con la maggiore approssimazione possibile per un mezzo come il cinema) una tranche de vie in cui la Storia americana, lo schema di rise and fall del gangster movie, le brucianti accelerazioni action, si sciolgono nella cronaca “urgente” di qualcosa che avviene nel presente, testimone il pubblico. Noi, qui, adesso. Pare di percepire materialmente quel cielo azzurro sopra il penitenziario durante la fuga, quei chiaroscuri notturni nei boschi intorno a Little Bohemia, le nuvole di polvere lasciate dai pneumatici, le plumbee serate solitarie della Depressione, le chiazze di buio separate dai radi lampioni di Chicago, la dolce epifania di morte del sole che bacia Dillinger nella visita al commissariato, come nessun altro film mai è riuscito a restituire.
Il procedimento è si quello già di Collateral, e ancor più Miami Vice: usare le fenomenali profondità di campo, la tattilità sensoriale, la presa totale sul reale dell’hd per immergere personaggi, ambienti, cose (spettatori) in un pulviscolo atomico di microsensazioni; infondere il massimo di vita e condurre al massimo di astrazione ogni inquadratura; spingere l’epica fenomenologica di Insider e Ali dentro un orizzonte vergine di conoscenza. Ma il tutto, applicato a un periodo storico passato e consacrato dalla mitologia filmica, è ancora più esplosivo, rivelatorio, nel perenne senso baziniano del cinema come macchina per rivelare la realtà.
Perciò lo showdown decisivo non è quello che coinvolge Winstead, Purvis e Dillinger fuori dal cinema, ma quello godardiano/bertolucciano che si svolge dentro il Biograph, quando Johnny Depp, fantasma digitale prossimo alla disincarnazione, si trova di fronte ai fantasmi in pellicola di Manhattan Melodrama (MM), rispecchiandosi nei baffi in b/n di Clark Gable, perdendosi nella rapsodia di pp di Mirna Loy dentro i cui occhi annega la perdita di Marion Cotillard: un faccia a faccia cinefilo decisivo ai confini e oltre la morte.
Mann è sempre stato un grande regista, ma il Mann digitale, per sintetizzare, è qualcosa in più. È qualcuno che sta osando indicare nuove strade alla sua arte, portandosi però appresso tutta la memoria di ciò che fu, un fardello inobliabile dove convivono Hawks e Antonioni, Rossellini ed Herzog, Peckinpah e Malick. È come quei tizi coi traccianti che fanno luce sulla pista all’arrivo dell’aereo che porta Dillinger in manette. Illumina il (nostro) futuro, riscoprendo (ancora una volta) la meraviglia di guardare al mondo.
Ottima riflessione ed analisi,Michael Mann è un quantum leap vivente