di Roberto Cirillo/ Se c’era da chiedersi se fosse ancora possibile essere autori ideologizzati e, in quanto tali, dar vita a un’opera ideologica (o almeno civile), il Martin Eden ci offre la risposta, realizzando, addirittura, quella che è un’operazione filologicamente d’altri tempi, ovvero un film di formazione che segua la parabola d’un sottoproletario verso la coscienza di classe. Uno di quelli, per intenderci, che probabilmente sarebbe piaciuto alla critica cinematografica militante, che ha esalato gli ultimi agonizzanti respiri negli anni Ottanta, deponendo le armi innanzi alla desistenza intellettuale di massa e allo sdoganamento di qualsiasi disimpegno artistico.
Martin Eden salva un giovane di famiglia altoborghese da una rissa, alle prime luci dell’alba, nel porto, il che gli schiude le porte della casa degli Orsini, famiglia ricchissima della Napoli bene e, soprattutto, gli consente di affacciarsi a quel mondo dorato e precluso, fatto di agi e cultura, che la bella figlia gli sventola sotto. Nasce così in lui il desiderio di riscattarsi dalla propria condizione, in realtà spinto dalle mire verso questa donna diversa, quasi stilnovistica, che, per censo ed estrazione culturale, gli sarebbe inaccessibile. Ovviamente, va da sé, cadendo vittima del facile incensamento idealizzante. È lei, infatti, l’Eva inconsapevole che gli inietta un sentimento di sudditanza e inferiorità culturale e di classe, facendogli annusare la mela dell’albero della conoscenza, e gli inocula il batterio della rivalsa e dell’arrivismo piccolo-borghese (come rivelerà nella scena chiave del bar, quando rinnegherà vigliaccamente la fragile e dimessa Margherita, con cui si era intrattenuto sere prima, e che prestissimo gli apparirà volgare e insulsa). Martin Eden pagherà, infatti, lo scotto moderno dell’acculturazione, sì, ma scontrandosi, nella lotta di classe, con la visione miope e tutta borghese della cultura, quella comoda, l’unica accolta dalla borghesia, ovvero quella di classe.
La stanzetta di Martin, se avete letto il romanzo di London, è la medesima di quella del romanzo: un bugigattolo dove il nostro eroe vive scrivendo e leggendo, risparmiando sul cibo, rinunciando al lavoro (per la sua borghese fidanzatina in salsa francese è il peccato capitale). Invia racconti alle riviste perché li pubblichino a pagamento. Si scontra però con una serie di infiniti “no” e “rispediti al mittente”, perché il nostro Eden, come Marcello e Braucci, sceglie di ambientare le sue storie nella realtà che conosce: quella dei bassifondi, fra gli ultimi, gli oppressi, gli indesiderati e gli invisibili. In una scena molto bella (e spartiacque) condurrà, tenendola per mano, la sua bella proprio fra di loro, per farle capire (e chiarire a sé stesso) che non vuol solamente vivere di arte, ma che sia un’arte impegnata, votata ai marginali. Da che era poco più che un buon selvaggio, o peggio un bruto dominato da pulsioni istintuali e a stento consapevole di sé, Martin Eden si autoedifica. E paga questa maggior consapevolezza, come l’eroe d’un altro bellissimo libro, Fiori per Algernon di Daniel Keyes (1959), con l’unico prezzo esatto: la perdita di quella felicità spensierata e selvaggia.
Se Martin, infatti, vuol incarnare quell’intellettuale gramsciano (altra parolaccia, oggidì) che faccia da perno fra due culture, quella borghese e quella popolare, in modo da riscattare la sua conoscenza tramite l’impegno, ovvero diffondendo, presso chi non è nella condizione di studiare, gli strumenti necessari a interpretare quel mondo diverso dal suo (il mondo borghese, di chi detiene il potere), d’altra parte si ritrova così, antieroe, inviso a entrambi i mondi, straniero ovunque. Non condivide più, infatti, con gli ultimi quel retaggio culturale in grado di contentarsi di poco, litiga con gli impegnati non condividendo le loro visioni paternalistiche e partitiche o sindacali, e infine non riesce a sedere a tavola con quei borghesi da cui voleva essere accettato, non riuscendo a “svendersi”. Nemmeno a costo dell’amore.
Pur essendo meraviglioso, dalla fotografia alla resa, dalle scene di finzione che si alternano con materiale d’archivio bellissimo e struggente, il film non è immune da alcuni difetti che ne rendono l’ultima mezz’ora stentata e farragginosa. La confusione temporale, infatti, per cui non si comprende più bene in che anno siamo, forse voluta per rendere l’universalità della storia che si sta raccontando, derivante da una disinvolta mescolanza di elementi e personaggi e materiali che ci sballottano da un tempo all’altro, innesta nello spettatore un senso di straniamento. Le diatribe tra il pensiero spenceriano e la lotta sindacale sono ormai desuete, e sentire Martin Eden menare vanto del suo essere individualista stride ferocemente con tutta l’operazione di attualizzazione. Certo, London lo scrisse per attaccare l’individualismo (lui che era socialista a modo suo, oltreché marinaio e scrittore), ma ora che siamo tutti individualisti e che un modo di vivere non comunitario ma nemmeno cooperativo è anche solo difficilmente immaginabile, che senso ha tenere quella linea di dialogo?
Altra occasione persa è quella di non aver osato di più, e anziché limitarsi al ritiro di Eden nelle campagne, fra le bufale di Bella e perduta, immaginare un Marinelli/Eden che attraversa la storia di Napoli e d’Italia (entrambe, ahimé, terribili cartine tornasole del cambiamento del mondo dello scorso secolo), emigrante a Torino, operaio nella Napoli de Le mani sulla città, testimone dell’iperconsumismo del boom americanizzante. Si sarebbe riusciti, in tal modo, a narrare la Napoli di quella mutazione antropologica che nessuno ha ancora mai contronarrato, dell’estinzione della napoletanità, di quel modo di essere popolo che era di De Filippo, di Totò e, in parte, di Troisi, quella sì, bella e perduta, e che Braucci ben conosce, e che è stata intravista dai vari Pasolini e Fofi.
Come un’opera ideologica in tempi presuntamente aideologici (o meglio, dove non è possibile immaginare una forma di ideologia che non sia quella del benessere edonistico di consumo), la conclusione non può che essere amara, come il sorriso macchiato da dandy invecchiato di un Eden arrivato. Amareggiati languiamo nell’inevitabile finale.
Se non fosse che, con un colpo di coda, veniamo ricatapultati alla scena di Eden che ha traghettato la sua infante imperatrice nei sobborghi malfamati, mentre un nano storpio annuncia, sulla spiaggia, lo scoppio della guerra (la prima guerra mondiale? La seconda? La terza inesplosa o forse una quarta ancora da venire in questi tempi di pax romana?). Ma quale Eden ricambia il nostro sguardo? Quello invecchiato o quello, ancora giovane, che è invecchiato anzitempo, perché raggiunto a priori dalla inesorabile consapevolezza che tutta la sua crociata sarà effimera come l’omonimo poema del suo mentore, Russ Brissenden, del quale è destinato a ricalcare, consumato di cinismo, disincanto e idealismo andato a male nel nichilismo, le orme?
Il sorriso che ci lancia Luca Marinelli, guardando il mare (lo stesso mare che ha ricordato stringendo la Coppa Volpi, dove va a morire la dignità di un paese che non sa accogliere e salvare chi bussa alle sue porte), è lo stesso del Noodles di Sergio Leone, gonfio di saudade per un flashforward ipotetico come il gabbiano gaberiano? Non lo sappiamo, ma riscatta un’opera che in ogni caso ci sembra segnare uno spartiacque, nel segno di un ritorno a un altro modo di fare cinema (di fare cultura) e ci fa un po’ sognare che, sì, forse un altro mondo non sarà possibile (ancora) ma almeno è possibile immaginare un altro modo di fare arte: un modo meno borghese e consolatorio, alternativo al disimpegno e alle asfittiche dinamiche da focolare domestico, e invece rabbioso, di finzione non assolutoria. Un cinema contro, insomma.