L’esperienza del trauma è legata a quella dell’ineffabilità. Trovare le parole per dire l’indicibile, le immagini per esprimere l’indescrivibile, il modo per rendere palpabile quanto sfugge costantemente ad ogni sforzo di comprensione razionale e ferisce anima e corpo, é un compito incommensurabile.
Sarah Fattahi riesce a compiere in Chaos, presentato nella sezione Cineasti del presente al festival di Locarno, questo gesto intenso e profondo ascoltando pianti senza lacrime, osservando sguardi velati di sconforto, mani torturate dai ricordi, corpi piegati dal peso del vissuto.
La regista mette in scena tre donne siriane prigioniere dello spazio. Gli appartamenti in cui vivono due di esse, a Damasco e in Svezia, e le strade di Vienna, in cui erra la terza protagonista del film – Sarah Fattahi stessa – non sono altro che delle proiezioni tangibili della loro prigione interiore. Questi tre luoghi sono tre volti di un unico dolore. Il montaggio glissa continuamente dall’uno all’altro senza soluzione di continuità. In questo costante andirivieni le tre donne, pur fisicamente lontane, sembrano darsi la mano, prese in una danza macabra senza fine.
Il film inizia con una ripresa effettuata nell’entrata del Kunsthistorisches Museum a Vienna: una donna alta, bionda, con un lungo cappotto scuro entra nell’edificio e si guarda intorno.
La seconda sequenza del film ci mostra la scala di un edificio bagnata da una luce fredda e bluastra. Segue un close-up sulle dita di una donna appoggiate al vetro di una finestra, s’intravvede il suo profilo. Fuori piove. La donna inizia a raccontare la sua storia guardando dritto nella cinepresa. Sullo sfondo si stagliano gli alberi di una foresta in Svezia. Poco a poco sulle immagini del bosco s’imprimono quelle del corpo della donna nell’acqua di un lago. Un taglio netto ci trasporta in un interno scuro e buio. Una tenda nera si apre: una terza donna, coperta da un lungo abito mussulmano, tocca un’enorme vetrata e guarda verso l’esterno. La città, Damasco, secca e rossastra, si estende a vista d’occhio nella luce abbagliante del sole.
Il quotidiano s’installa con i suoi gesti a prima vista anodini: Sarah Fattahi prepara un caffe nel suo appartamento, Raja in Siria piega i vestiti nella stanza del figlio morto da tempo, Heba in Svezia condisce un’insalata di pomodori e si siede a magiare.
Sarah Fattahi, sempre presente ma fuori campo, dialoga con le due donne. Spesso la voce non coincide con le immagini ma si cala, proveniente da un off indeterminato, con uno scarto per sottolineare la sua natura di figura mentale, di pensiero intimo. La discussione inizia in medias res. Heba, che é stata brevemente internata in una clinica psichiatrica, confessa che solo dormendo, annullandosi nel sonno, riesce a sopportare il dolore e la sensazione della perdita. La giovane donna parla della violenza dello sradicamento assoluto.
Dopo avere perduto tutto: la famiglia, la patria, la lingua, la cultura si trova catapultata in Svezia dove non comprende la lingua, dove si sente completamente sfasata, dove il paesaggio verdeggiante, silenzioso, pieno di alberi le risulta estraneo ed ostile. Abituata a vivere a Damasco in una casa in mezzo alla città, circondata dal rumore della strada, dei negozi, dei vicini Heba si sente inghiottita dal vuoto silenzioso della foresta che circonda la sua nuova casa. Arrendersi non é possibile, bisogna andare avanti, questo richiede molta forza, ammette la donna, che deve badare anche al suo bimbo.
Nella parte più autobiografica della pellicola, girata a Vienna, la presenza di Sarah Fattahi é mediata da un “doppio” rappresentato dalla scrittrice e poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, personificata da Jaschka Lämmert. Lo schermo viene invaso dal riflesso tremolante di una donna bionda sulla lama di un coltello. La donna posa il coltello sul tavolo di un caffe. La cinepresa si sofferma sulle sue mani.
In off si sente la voce di Ingeborg Bachmann – nume tutelare della regista – parlare dell’orrore del tempo presente. Gli incubi notturni, dice la poetessa, rivelano della certezza di uno sterminio totale a venire. “Non voglio parlare né in questo libro né in nessun altro libro direttamente della guerra” aggiunge Bachmann “la guerra é terribile e tutti possono scrivere sulla guerra. Ecco, io vorrei soprattutto scrivere della pace perché quello che noi chiamiamo guerra non é in realtà null’altro che l’esplosione ultima di ciò che noi chiamiamo comunemente pace ma che in realtà costituisce la vera guerra.”
Sarah Fattahi ama filmare attraverso dei filtri naturali: ritrae una silhouette indistinta, in atto di vestirsi, dietro il vetro cesellato di una porta, si sofferma sul riflesso notturno di un volto sul vetro della finestra, trasmettendoci così un’immagine leggermente sdoppiata e quasi immateriale. Le donne sfiorano e poi si appoggiano ai vetri delle finestre come se fossero all’interno un acquario, rinchiuse di una prigione di cristallo, trasparente ma altrettanto opprimente.
L’incastrarsi senza soluzione di continuità di un luogo nell’altro per mezzo di un montaggio i cui punti di sutura sono tutti calcolati con estrema perizia, c’immerge naturalmente da una realtà nell’altra, in un flottamento continuo. La porta della cucina dell’appartamento buio a Damasco si chiude e ci ritroviamo, di giorno, in una cucina in Svezia, la giovane donna é seduta al tavolo e guarda nel vuoto, la vediamo lavorare con cura ad un collage, la cinepresa segue da vicino i suoi gesti pazienti ed accurati nell’incollare vari disegni su una tela. Il suono opprimente della respirazione é onnipresente in questi segmenti. Dalla finestra si vedono i rami scheletrici degli alberi senza foglie, la colonna sonora é pervasa dal rumore del vento. Mentre il rumore di un temporale persiste l’immagine si sposta a Damasco : la donna vestita di nero guarda dalla finestra nella luce accecante della città.
L’inquadratura si sposta sulle sue dita che si muovono convulsamente intorno alle perle del suo « rosario » mussulmano. Raja vive nel suo appartamento buio, parato di nero come in un sepolcro. La donna racconta del ritrovamento del cadavere del giovane figlio in fondo al letto un fiume, con le mani legate dietro le spalle e molteplici ferite. “L’assassino vive ancora nel nostro villaggio” aggiunge con fredda precisione.
Poi la cinepresa sonda di nuovo gli spazi dell’appartamento in Svezia, Heba, riprende il lavoro su un grande collage. Racconta che un giorno si é buttata in un lago con tutti i suoi disegni. Non verremo mai a sapere se questa storia é un evento reale o un prodotto della sia immaginazione; la narrazione é volutamente frammentaria, fatto di tanti brandelli come lo sono i ricordi e la vita spezzata delle protagoniste del film. ll vuoto scavato dalla morte ha portato con se silenzio, segregazione, solitudine.
Il Chaos dell’esistenza di queste donne sconvolte dalla guerra è descritto nel film con un tono pacato, misurato. Con approccio sottile e rigoroso, Sarah Fattahi riesce a penetrare negli spazi ineffabili del dolore per aprirli alla solidarietà e ad una vera con-passione. Chaos è un film raro, un film prezioso, un film necessario.