di Fabrizio Croce/

D: Partendo da un episodio di cronaca,come ti è venuta l’associazione di raccontarlo attraverso la tecnica dell’auto- ripresa da parte degli amici e dei conoscenti della vittima?

R: Ero venuto a conoscenza della tragica morte di Davide Bifolco un ragazzo di 16 anni ammazzato da un carabiniere dopo un inseguimento: lui era sul motorino, senza casco, insieme ad altri due amici , come spesso succede a Napoli; il carabiniere gli ha sparato, dopo averlo speronato con la macchina, mentre lui, caduto per terra, provava al alzarsi . E ha posto fine alla sua vita.  Il tritacarne del pregiudizio sociale, dopo la diffusione della notizia, aveva sentenziato che in fondo si trattava di “uno di meno”: come dire siccome viene da quel quartiere sicuramente era o stava per diventare un criminale.Intanto, anche se fosse stato un ragazzo con dei precedenti penali ( tra l’altro a 16 anni cosa avrebbe mai potuto aver fatto di così grave!)  non meritava comunque la pena di morte. In Italia , spero ancora per qualche tempo, c’ è la possibilità di avere un processo, di potersi difendere, ma nel caso specifico, oltretutto, era un ragazzo innocente, incensurato, che aveva solo voglia di divertirsi.

Mi aveva colpito proprio la questione del pregiudizio sociale che ha ammazzato due volte Davide, come hanno detto i suoi genitori,  e allora ho avuto voglia di andare a raccontare questa realtà dal di dentro , dando la parola ai ragazzi che sono un po’ la parte lesa, quelli che potenzialmente possono fare la stessa fine di Davide, ovvero i suoi amici e conoscenti.Anche perché spesso quando succedono fatti del genere sui giornali trovi subito l’intervista al sociologo , al politico, allo scrittore che ti spiegano come va la vita; non c’è mai nessuno che si fa raccontare la storia dal punto di vista dei ragazzi che la vivono.
Al contrario  la mia idea era farla raccontare specificamente dal loro punto di vista, dove l’espressione punto di vista non avesse solo un senso metaforico ma anche materiale e reale, ovvero far raccontare se stessi ,e il contesto in cui vivono ed è maturata quella tragedia, a due ragazzi che erano conoscenti e vicini di casa di Davide: in questo modo ci hanno fatto vedere quel mondo aldilà degli stereotipi e dei pegiudizi che ognuno di noi ha.
E così ho scelto uno strumento che sapevo che qualunque ragazzo sa usare,il cellulare, approfittando del fatto che ormai questi cellulari hanno delle videocamere ad alta risoluzione e degli automatismi che ti consentono di girare in qualsiasi condizione difficile anche senza avere una padronanza del linguaggio come servirebbe per una videocamera professionale.

D: Puoi parlarci del metodo  che hai utilizzato per lavorare con loro?

R:Ho chiesto loro di inquadrarsi nel display del cellulare come se si stessero guardano allo specchio, mettendosi di lato però, non come nei selfie dei social, quelli narcisisti dove il volto è nella parte più importante dell’inquadratura ,  affinchè raccontassero il contesto e la loro vita; e ,metaforicamente, ne viene fuori  una lettura del loro passato,della loro cultura,della lora famiglia e quello  che c’è dietro, ma che non vedono(e non possono sapere quello che c’è avanti…). Io sono stato sempre con loro , a dirigerli, perché faccio questo lavoro, il regista: cerco di metterli in bella copia,  di trasformare la vita dei personaggi in un film, scegliendo i momenti più interessanti non solo al montaggio ma anche durante le riprese perché, come dico sempre, il regista è il primo spettatore di un film con il privilegio di poterlo modificare in corso d’opera; per cui, se una scena non faceva ridere , commuovere o emozionare io la facevo ripetere o gli aiutavo a farla nel modo migliore dal punto di vista cinematografico e narrativo, ma sempre nel rispetto della verità di chi sono loro e della storia che portano .Ne viene fuori il ritratto di un rione, che è il Rione Traiano, ma potrebbe essere qualsiasi rione periferico di Napoli, o qualsiasi atro rione del mondo.

D: Mi sembra che il film sia in bilico tra la sconforto di trovarsi in una situazione ineluttabile(le ragazze che danno per scontato che sposeranno un camorrista) e la possibilità di compiere una scelta diversa sostenendosi reciprocamente(l’amicizia tra Alessandro e Pietro).Quale riflessione hai maturato rispetto a questa realtà?

A Napoli il 70 per cento della popolazione vive nei quartieri popolari, ma poi la città che i turisti conoscono è quella del centro storico perché , a ragione,c’è la voglia di far conoscere i luoghi più caratteristici e pittoreschi ….però poi, freudianamente,  il centro storico si dimentica che esiste un’altra città.E infatti questi ragazzini , quando dicono andiamo nel centro storico , dicono andiamo a Napoli, come se non fossero cittadini della propria città. Il pregiudizio, come spiega Amnesty internatinal che patrocina il film ,può essere  riassunto come lo raccontano, ad esempio, in America :se la gente vede un bianco che corre ne deduce che sta perdendo il treno, o sta andando a un colloquio di lavoro o a prendere i figli a scuola; se vedono un nero che corre ha commesso di sicuro un furto e sta scappando dalla polizia;lo stesso meccanismo  porta le forze dell’ordine a sparare sui neri nei vicoli a New Orleans e a Los Angeles , o in Italia agli immigrati e ai ragazzi dei quartieri popolari perché se  fossero stati beccati su un motorino in un quartiere borghese, avrebbero pensato : Sono figli di un professionista, avranno fatto una bravata.. e invece , se vieni dal Rione Traiano, sei un potenziale camorrista. E la gente che vive in questo Rione, come pure in qualsiasi rione povero del mondo, è fatta anche di ragazzi che in Italia dovrebbero poter usufruire del diritto allo studio garantito dalla costituzione, anche se in realtà questo non avviene perché non tutti possono permettersi gli stessi libri e quando vengono dati i compiti a casa, se un padre o una madre hanno gli strumenti culturali per aiutare il figlio o economici per pagargli le ripetizioni private, il ragazzo conitnua ad andare a scuola; se invece , come nella maggioranza delle situazioni , sono poveri cristi che non hanno la possibilità di permettersi ripetizioni, alla prima difficoltà lasciano la scuola.

Se un ragazzo lascia la scuola e non trova lavoro che cosa fa? uno dei più vicini ammortizzatori sociali è lo spaccio, e non  meravigliamoci poi se questo succede: un ragazzo che viene dalle borgate non è geneticamente più predisposto alla criminalità , è una questione sociale. Per questo, se chiedi a questi ragazzi cos’è l’istituzione, loro ti dicono subito: la camionetta blindata dei carabinieri, che arriva quando ormai la tragedia è avvenuta; invece bisognerebbe offrire loro una vita sociale, delle attività, dei laboratori, dei doposcuola. Alessandro e Pietro sono meravigliosi ,diversi e complementari; sono amici e l’amicizia per loro è lo scudo che li tieni lontani dalla criminalità; e per me sono degli eroi perché si svegliano alle sei del mattino per cercare lavoro. Alessandro fa il barista e guadagna in una settimana quello che guadagnerebbe in un’ ora se prendesse altre scorciatoie.
la loro unione gli permette di ripararsi dalle tentazioni facili, però non hanno questo atteggiamento di diffidenza eccessiva verso il quartiere che forse in fondo amano. Sono nati là, c’è la loro vita, la famiglia, i parenti. Cercano, grazie anche all’attenzione dei loro genitori, di vivere una vita normale, con un lavoro onesto.
Rispetto a le ragazze qualcuno mi ha detto che si esprimono come se accettassero un mondo maschilista e arcaico.Invece io sono innamoratissimo di queste ragazze, le ho viste più lucide dei sociologi che devono aspettare che il ragazzo muoia per scrivere l’articolo; loro lo sanno dieci anni prima. Sono semplicemente più disincantate e realiste:  già sanno che il ragazzino di cui si innamorano, che ha dodici anni, probabilmente, per le ragioni dell’emarginazione sociale di cui parlavo prima, verrà arrestato oppure ucciso. Le due cose più importanti che abbiamo sono la liberà individuale e la vita, e queste ragazze sono consapevoli  di mettere a repentaglio entrambe. Cosa può fare una ragazza se non promettere amore eterno, almeno quello? quindi è una consacrazione laica , le religiose lo promettono a Dio, loro lo premettono ai fidanzati, ma sono ragazze libere per quella che può essere considerata la loro libertà, nessuno gli impone i mariti come succede, ad esempio, alle donne indiane. Queste ragazze decidono come vestirsi e come mostrarsi.  Non accettano la realtà in cui si trovano , ma hanno capito qual’è la situazione e la vivovono, cercando di prendere quello che c’è di buono: l’amore, la musica, l’amicizia.

D:A parte l’ esplicito riferimento a Gomorra, ho trovato suggestioni e rimandi a un cinema (di finzione e documentario) che ha raccontato la marginalità e il senso di precarietà dell’ essere adolescente in contesti problematici: mi vengono in mente, tra gli altri, sul tema dell’auto-rappresentazione  Vito e gli altri di Antonio Capuano e Sognavo le nuvole colorate di Mario Balsamo; qui c’è una connessione con la specificità del linguaggio dei ragazzi di oggi, il selfie appunto.

R: La scelta del selfie ha una valenza estetica: è un escamotage per avere questi ragazzi, sempre concentrati, che si guardano allo specchio e sono più sinceri e più immediati, in relazione con chi c’è dietro di loro e con la realtà che li coinvolge: raccontano, quindi,  un presente.

Dal punto di vista cinematografico per me è anche un po’ una difesa dall’eccesso, dall’accanimento mediatico che c’è stato in questi  anni nel raccontare Napoli, dal cinema, lettura, dalla televisione; io stesso con i miei film precedenti  ho partecipato a questo forma di narrazione. Così ho pensato: è inutile raccontare per l’ennesima volta la nuova cartolina, i palazzoni di Scampia e di Ponticelli. Inoltre, avevo l’ossessione di fare un film sugli occhi: sugli occhi di chi guarda  e sugli occhi di questi ragazzi che sono potenziali bersagli. Infatti ci sono le videocamere di sicurezza e anche in questo caso ho abolito il filtro: nel selfie, che definisco metaforicamente una visione anoressica in quanto non c’è la videocamera  ne l’operatore, è il loro punto di vista immediato; nelle videocamere di sicurezza c’è la bulimia, il punto di vista di Napoli ma anche lì non c’è un operatore.

D: Nel film ti metti molto in gioco in prima persona ,pur passando la ripresa ai personaggi che racconti:quanto passa della tua relazione con loro in questo affidargli il tuo sguardo?

Non è un film partecipato, non gli ho dato la telecamera chiedendo di andare a girare e poi io avrei montato, perché non è nelle mie corde e poi questi ragazzi magari avrebbero rubato delle riprese senza l’autorizzazione delle persone filmate e a me avrebbe dato fastidio perché sarebbe stato come spiare dal buco della serratura; e poi riprendere ragazzi che fanno attività borderline significa esserne complici; ho preferito invece essere lì a dirigerli, a provocarli, a stare in quel momento con loro; e l’impressione che ho da spettatore ora che vedo il film è che lo spettatore sta dietro a quello specchio, come quando si fanno gli interrogatori dalla polizia o i colloqui dagli psicologi.

Aggiungo che quando si fa un film dal vero i protagonisti prima di personaggi sono persone: questo lo dico perché sui social i ragazzi stanno ricevendo dei commenti, alcuni positivi, altri meno, e ricordo che questi commenti vanno a finire alla persona … questi ragazzi, che interpretano se stessi sono più bravi degli attori che intepretano personaggi inventati perché si mettono a nudo, hanno autoironia, si aprono alla loro intimità. Sono coraggiosi.

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