Presentato in pompa magna al Festival di Roma, in concorso, e distribuito contemporaneamente in sala nientedimeno che da Medusa, Viola di Mare racconta la storia d’amore di due donne, Angela (Valeria Solarino) e Sara (Isabella Ragonese) in un’isola della Sicilia di fine Ottocento, sfidando le rigide convenzioni dell’epoca con una determinazione e un coraggio “maschili”; e infatti Angela dovrà farsi uomo, travestendosi, per avere la possibilità di vivere il suo amore alla luce del sole.
E’ un film che parla delle ingiustizie e dei soprusi patiti storicamente dalla donna, che solo rinunciando alla propria identità (che la Solarino recupererà tuttavia con grande dignità e determinazione nel bel finale del film), può rovesciare la propria condizione di “schiavitù”. Ma è anche e soprattutto un film che parla di amore tra due donne, della loro voglia di essere una “vera” famiglia attraverso un figlio, del rifiuto della timorata e ipocrita società di una coppia “sbagliata”. L’occhio strizza irrimediabilmente all’attualità e in questo Viola di mare dimostra un encomiabile valore politico; tuttavia, dal punto di vista artistico, il film risulta un’opera mediocre, in cui non bastano le giuste intenzioni, con un impianto simil-televisivo, dialoghi a tratti risibili, incapace di rendere le storie e i personaggi credibili.
Dirige Donatella Maiorca, che ha lavorato moltissimo in televisione, dopo che nel 1998 aveva diretto un’altra Viol@, lontana dal mare e rinchiusa nel mondo apparente del cyber-sex. E come allora a Stefania Rocca, anche adesso è a Valeria Solarino che tocca il compito di reggere un film fragile fragile, sia pur con una bellissima storia, ispirata ad un fatto realmente accaduto, e tratta dal romanzo Minchia di re di Giacomo Pilati, che la regista ricostruisce tuttavia senza la capacità (e soprattutto la forza d’autore) di restituire tutta la carne e il sangue, che questa storia avrebbe meritato. Limite, questo, sia detto, di gran parte del cinema italiano, incapace, o poco audace, nel confrontarsi con le sue viscere, pudicamente reticente anche quando affronta temi scabrosi e delicati, con uno stile patinato e, perciò stesso, vuoto. Cosa che sorprende ancor di più in una pellicola dove invece, e non sembri una contraddizione, la carnalità è ampiamente ostentata: dall’amplesso delle due protagoniste, al sudore dei corpi, al lavoro “maschio” e fisico, tutto è talmente esibito – nel senso di essere spinto eccessivamente verso l’esterno – da rimanere a un livello superficiale e quindi non viscerale, come un involucro vuoto, un frutto (proibito) a cui è stata scippata la polpa.
Quel che di buono resta è affidato, come accennato, alla bravura degli attori – la Solarino, interpretazione mirabile , Ennio Fantastichini, Giselda Volodi nella parte della madre di Angela – al montaggio di Marco Spoletini e a qualche passaggio “illuminato”, intenso e poetico, come il finale, la cui forza assume una dimensione quasi sacrale. Ma è troppo poco per un film di cui probabilmente si discuterà molto, e ce lo auguriamo, soprattutto per il messaggio politico che porta con sé. Quanto mai irrinunciabile, oggi, nell’Italia delle aggressioni omofobe e dell’ipocrita difesa della famiglia “tradizionale”.
ti segnalo la recensione “Viola di mare ovvero la solitudine della lesbica italiana” pubblicata su
http://www.culturagay.it
grazie mille della segnalazione dada la leggerò