Al Festival di Roma, il primo targato interamente Rondi, sbarca in concorso il regista spagnolo Alberto Rodriguez con After, storia di fallimento e autodistruzione, discesa agli inferi di tre amici, Manuel, Ana e Julio, belli, ricchi e affermati, almeno secondo le convenzioni del mondo “esterno”. Ma è nel loro intimo che il meccanismo della felicità e della capacità di accettare serenamente l’appartenenza al mondo adulto si inceppa; è nel loro intimo che sentono un vuoto che li risucchia, che qualcosa si sta irrimediabilmente spezzando, senza che loro riescano (e probabilmente vogliano) tentare via di salvezza o semplicemente di fuga. Il loro abbandonarsi passivamente all’infelicità e all’inadeguatezza li costringe in un io individualistico e anti-comunicativo, che impedisce loro di condividere quello che tutti e tre, sia pur in forme diverse, vivono. Ecco perchè il loro incontro, una notte lunghissima e senza fiato, nonostante gli abbracci, i baci, le carezze, i fiumi di parole che scorrono senza sosta, non riesce a diventare condivisione di dolore, ma un viaggio congiunto verso il baratro che in realtà ognuno vivrà in completa e totale solitudine, senza nemmeno riuscire ad avvertire quello che l‘altro prova.
Gli strumenti di questa comunicazione impossibile e apparente diventano l’alcool, il sesso e soprattutto la droga, in un’illusione di eterna giovinezza, scandita dalle note di Forever young di Bob Dylan, che diventa illusione di una felicità inesistente. Al termine di questa notte infinita l’“after” è rappresentato dalla presa di coscienza di questo profondo malessere, un “dopo” che segna un punto di non ritorno; ma proprio perché nei protagonisti non c‘è nessun tentativo di cambiare le cose in realtà quel “dopo“ non si differenzia dal “prima“, e la consapevolezza non è altro che una motivazione in più, e definitiva, di abbandonarsi alla disperazione: tutto è immobile, niente evolve, anzi tutto sembra incepparsi in un loop che si ripete all’infinito. Il film riesce perfettamente a trasmettere allo spettatore una sorta di vuoto e disagio cosmici e senza possibilità di riscatto. Il regista rende abilmente la sensazione di questo totale inceppamento dell’anima attraverso un’abusata tecnica cinematografica, scandendo il film in tre parti uguali in cui la stessa notte è descritta e rivissuta secondo le angolazioni dei tre protagonisti, con tre punti di vista diversi che guardano però tutti nella stessa direzione finale.
Ne viene fuori un film schematico e geometricamente perfetto, ma piatto, non solo perché il regista rinuncia a qualsiasi approfondimento che sveli le cause del disagio vissuto dai tre amici, ma anche perché ogni segmento in cui è suddiviso il film è identico all’altro, senza una variazione, un sussulto, un elemento che spezzi questa geometria impeccabile, ma fin troppo prevedibile. Ed è un peccato, per un film che attrae in maniera quasi ipnotica, con attori bravissimi, carnali e sanguigni, come nella più antica tradizione spagnola, ma profondamente moderni. Un film che affascina, che risucchia lo spettatore in un mondo deformato e lascivo reso con colori vibranti e immagini accattivanti, in cui la macchina da presa indugia, in maniera talvolta fin troppo compiaciuta, sui dettagli dei corpi, degli sguardi, e dell’ambiente che li avvolge. Il mondo adulto non sempre è quello che ci avevano promesso, dice Rodriguez: rendersene conto diventa un’esperienza agghiacciante e senza via di fuga.
sono perfettamente d’accordo, peccato per un film che ha saputo coniugare così bene musica e immagini da hinson a smog