di Fabrizio Funtò/ Dico subito che la cifra evidente di questo racconto ― credo, con elevata probabilità, fedele a come si sono svolti realmente i fatti ― è lo squallore.
La “degradazione”.
Che il giovane Stefano Cucchi sia caduto in un gorgo dove le Forze di Pubblica Sicurezza diventano le forze di un casuale massacro, forse importa poco. Più che il soggetto, qui interessano tutti i complementi: Il complemento di luogo, quello di specificazione, il complemento oggetto, il complemento di stato in luogo.
La storia la conosciamo tutti, finale compreso. Quindi non mi dilungo sul calvario che il giovane Alessandro Borghi (nei panni del protagonista) ha reso in maniera impeccabile e molto credibile.
Lo scenario degradato di Stefano Cucchi è quello delle periferie urbane contemporanee, dove l’inquietudine giovanile, la pubertà che stenta a diventare maturità (e che forse non lo diventerà mai, ahi vizi italici…) si coniuga con l’onnipresente droga. Fumo, cocaina, eroina.
Il trentunenne geometra Stefano, figlio del geometra Giovanni Cucchi (Max Tortora), al lavoro nella dittarella del padre, conduce una vita ai limiti della sopravvivenza. Senza senso. Vuota.
I genitori ― credendo ad un suo ravvedimento sulla droga ― gli ha perfino comprato un appartamento tutto per lui, dove il ragazzo invece esercita le operazioni di spaccio.
Come sempre accade, il grande vuoto avvertito dai ragazzi deve essere riempito da qualcosa da buttare dentro: che sia fumo, che sia cibo, che sia alcol, che sia iniezione in vena: che importa? Occorre buttare dentro “roba” per sentirsi qualcuno, per sentirsi vivo, ed eventualmente per fuggire via con la testa.
Padre, madre e sorella lo sanno, lo vedono. Lo criticano, perfino.
Non che la loro vita sia migliore. Passano il tempo della loro esistenza, fra quei piccoli coriandoli di felicità lanciati oltre il muretto, nel baratro. Il figlio, l’amore della nonna che lo deve accudire, mentre Ilaria è al lavoro; le cenette a casa, le feste coi selfie. Magari le discoteche ― con ciò che ne consegue. Squallore.
E’ lo scenario, il complemento di stato e di luogo, di una piccola borghesia fatta di tanti esseri umani senza qualità. E noi siamo quella piccola borghesia, in continua caduta libera verso la precarietà, verso la povertà, verso lo squallore e, alla fine della discesa, c’è sempre lei: la paura.
Come la droga fa da carburante illusorio all’otre vuoto di una vita qualsiasi, così le cosiddette “Forze dell’Ordine” sono il rovescio della medaglia, i cani da guardia di un sistema che mantiene gli umani allo stato brado, al livello di gregge. E se qualche cane da pastore, sebbene a riposo o a fine turno, azzanna la pecorella nera, che volete che sia?
Nel cupo fluire delle scene, quando emerge la tumefazione ed affiorano sullo schermo le conseguenze di quelle percosse selvagge che determineranno il decesso, si capisce chiaramente che lo squallore di prima si rispecchia nello squallore dei cosiddetti “servitori dello stato”.
Non c’è salvezza da entrambe le parti. Vediamo il film che inizia la discesa, sappiamo dove ci porterà, e sappiamo anche che non vi è alcuna luce che ci possa illuminare.
Sbagliano tutti, è evidente. Ma non sbagliano le procedure, non sbagliano le diagnosi o le terapie, non sbagliano neanche le decisioni del magistrato se far vedere la salma di Stefano ai familiari oppure no. È sbagliata la vita che viene rappresentata. È sbagliato accettare di vivere così.
Ora, il racconto rispecchia la realtà, come dicevo, forse con assoluta fedeltà. Ma noi ci rispecchiamo in quei personaggi? La nostra vita è, tutto sommato, quella vita lì?
Questo è il problema silenzioso che sta alla base del film. Viviamo anche noi nel degrado?
La sorella di Stefano, Ilaria, ha tratto energia proprio dalla vicenda tragica del fratello per puntarsi sui gomiti e salire su, darsi una dimensione nuova e diversa. Ha trasformato il dolore privato in un dolore universale, in un dolore emblematico per gli esseri umani senza volto. Quelli che si presentano prima con il cognome e poi con il nome, perché vivono come numeri sugli elenchi ordinati e sulle liste di controllo.
Poteva rimbalzarne indietro, Ilaria, e rientrare nel cupo mondo della nebbia. Come fanno molti familiari delle vittime di droga, di Mafia e di criminalità. La luce che Ilaria Cucchi ha trovato, gliel’ha portata in dono la morte assurda del fratello.
Ma chi porterà la luce fra i suoi aguzzini, o fra le conoscenze di Stefano, la cui morte (c’è da scommetterlo) non avrà alterato di un millimetro la conduzione delle loro esistenze?
Chi andrà a dire a quei carabinieri, a quei poliziotti e secondini, che l’essere umano che prendono in custodia è da curare e proteggere, e non un agnello da portare al sacrificio negli altari con le sbarre?
Chi andrà a spiegare loro che rispettare un detenuto, significa rispettare il miracolo della vita, significa rispettare anche quel miracolo che vive in loro? Significherebbe, per loro, rispettare se stessi. Ed i pochi che lo percepiscono, sono poi forzati ad agire come gli altri, per non finire anche loro nel gorgo.
Ma nessuno dà più un valore, un senso, all’esistere? Nessuno tenta più di migliorare se stesso e l’ambiente in cui gli è dato di vivere? Nessuno dà più un senso all’avventura unica ed irripetibile della vita?
Una visione pessimistica dell’umanità e della società, mi rendo conto. Ma con elevata probabilità molto vicina a quello che accade nella realtà.
Ultima notazione: Netflix è il produttore e distributore di questo racconto. È un fatto troppo rilevante per non segnalarlo, e per non rimandare questa riflessione ad un altro momento.