L’uomo del XXI secolo crede di sapere tutto della storia. Musei traboccanti di reperti e testimonianze, film, documentari, libri e canali di ogni sorta – attraverso i quali ciascuno crede di conoscere eventi determinanti per la storia dell’umanità, come l’Olocausto degli ebrei – pongono un velo sulla reale possibilità di scoprire e stupirci della verità. Sappiamo tutto, vediamo tutto ma non sentiamo niente e non guardiamo oltre l’informazione.
Shoah di Claude Lanzmann ci fa sentire ciechi e ignoranti, nel senso etimologico di entrambe le parole: nove ore e mezza di interviste e testimonianze, prive di immagini di repertorio e fotogrammi dell’orrore – quali ci hanno abituato trasmissioni pseudo-storiche e documentaristiche – ci calano nell’orrore, come solo l’autenticità delle parole, la verità di uno sguardo e l’abisso di un silenzio, possono fare.
“Né romanzo né documentario, Shoah realizza questa ri-creazione del passato con una stupefacente economia di mezzi: dei luoghi, delle voci, dei volti”: queste sono parole scritte da Simone de Beauvoir, quando l’opera magistrale di Lanzmann, frutto di dodici anni di ricerche e di lavoro, uscì nel 1985. A New York, nella pausa fra la prima e la seconda parte della proiezione, un rabbino chiese di rimanere in sala a recitare il Kaddish, la preghiera per i morti. Un evento esemplificativo dell’unicità dell’opera di Lanzmann: un film sulla radicalità della morte e non sui sopravvissuti. Per questo Simone de Beauvoir parla di “ri-creazione del passato” e lo stesso Lanzmann definì il suo lavoro come “evento originario”, come lui stesso scrisse: “in un certo senso nessuno è stato ad Auschwitz. Perché chi c’è stato è morto subito, non c’è stato, non ha conosciuto Auschwitz: non ha saputo cos’era in qualche modo. Non ha capito la ragione della propria morte. Chi arrivava ad Auschwitz e, nel giro di poche ore, veniva gassato e ridotto in cenere, moriva senza aver minimamente compreso la propria morte…quanto a chi c’è stato ed è tornato, se è sopravvissuto è stato appunto perché ha percorso delle tappe diverse. Indipendentemente dal dolore che ha conosciuto e dai rischi che ha corso, è stata un’altra cosa: non è finito nelle camere a gas. Ha percorso le tappe di una possibile sopravvivenza, per scarse che fossero le possibilità di sopravvivere. Perciò quando parlo di “evento originario” a proposito di Shoah, voglio dire che i protagonisti ebrei del mio film si trovano in una condizione molto particolare, sia nella realtà sia nel film. Appartenevano al Sonderkommando: non erano dei “deportati comuni”, ed erano gli unici ad interessarmi, perché sono stati i soli testimoni della morte del loro popolo. Per loro si dovrebbe inventare un nome diverso da quello di “sopravvissuti”. Sono individui tornati dall’aldilà della soglia del crematorio (cioè indissolubilmente dal complesso camera a gas-crematorio). Erano tutti destinati a morire e sono sopravvissuti per un miracoloso concorso di coraggio e fortuna. Ne sono coscienti al punto da non dire mai “io”. Non raccontano la loro storia personale, non dicono mai come sono sopravvissuti, dicono “noi”, sono portavoce dei morti”.
Trovarsi davanti alle lacrime di coloro che facevano funzionare i forni o alla disperazione del parrucchiere che tagliava i capelli ai condannati, che improvvisamente ne deforma il volto apparentemente impassibile o assistere all’ironia e alla fredda capacità di un Unterscharführer SS di raccontare l’orrore, con in mano una bacchetta da professore, è solo il tentativo di rendere un frammento di ciò che è Shoah. Vedere i luoghi dell’orrore attraversati dalla vita che continua, nel tentativo di immaginarli com’erano e nello sfasamento temporale che l’immemorabile crea, sentirsi trascinati dall’abisso del sempre, mentre treni corrono su binari infiniti di un’impossibile archiviazione della memoria, anche questo è Shoah. Potrei raccontare frammenti di interviste, descrivere il processo di selezione delle scene operato da Lanzmann, tentare di verbalizzare sequenze della matematica e disciplinata macchina della morte hitleriana, ma penso che l’unica cosa sensata da dire sia: bisogna vedere Shoah, per iniziare a capire. Perché come diceva Lanzmann, “leggere e basta non è sufficiente. Bisogna vedere e sapere, sapere e vedere, indissolubilmente. E’ un lavoro straziante”. Dopo nove ore e mezza di viaggio nella verità della morte che sola rimanda l’immagine pura della vita, mi sento di condividere pienamente le parole di Moni Ovadia: “Dopo aver visto Shoah di Claude Lanzmann io non sono più stato l’uomo di prima, mai più”.
Perché il silenzio su questo capolavoro? Perché l’assenza di proiezioni (l’ultima edizione italiana è stata mandata in onda in tarda serata dalla Rai nell’estate del 1987 e a quasi vent’anni di distanza nel 2005, in occasione della giornata della memoria, la tv satellitare Placet ha riproposto l’edizione intergrale del film in quattro puntate)? Perché le scuole invece dei manuali di storia, non mostrano Shoah? Forse tutti pensano di saperne abbastanza di Olocausto e nazismo, forse nella realtà congestionata in cui viviamo è preferibile guardare 24 ore su 24 il Grande Fratello piuttosto che nove ore di verità, ma resta il fatto che la presunzione di conoscenza, non è conoscenza.