di Alessia Brandoni/ “Non la bontà inconscia, ma quella della volontà, nonostante tutto”, è la risposta determinata e insieme vivida che Armand, lungo una passeggiata in un bosco della provenza minacciato dagli incendi (anch’essi non ingenui…), offre come alternativa al cinismo amaro e impotente del fratello Joseph, “il più intelligente dei tre” (e in effetti sembra una citazione dai Karamazov). In ballo c’è la gestione del padre Maurice, molto amato e ora colpito da un “ictus con danni irreversibili”, questa la diagnosi del giovane medico del paese –che però si sta organizzando per trasferirsi a Londra, “così pago meno tasse e contributi”.
Questo atto volontaristico, tuttavia, si intreccia con una spinta vitale -che nel corso della storia animerà di volta in volta tutti i personaggi, anche il giovane medico- la quale, da una parte, e diremo quasi con un salto, fa gettare la rete oltre l’ostacolo (il mare svuotato dai pesci e sfruttato dal turismo liberista e/o natural-chic), dall’altra finisce per aprire il presente al futuro -e non isolatamente ma da una comune radice, che è anche la comunità del cinema e degli attori di Guédiguian, che appunto è quella che radica la vitalità alla volontà (di conoscenza e di creare mondi), e la libertà alla responsabilità e alla cura dell’altro. O almeno che sta nelle possibilità.
Una volontà, dopo la sconfitta della classe operaia -la depressione seppure fiera di Joseph-, che forse rinnova anche il tema della libera scelta: laddove al dovere di decidere in prima persona e liberamente, rifiutando, cioè, sia le sirene neoliberiste della moltiplicazione dei pani (fare di un ristorante di pescatori autentico, quello di famiglia gestito fino ad allora da Armand insieme al padre, un resort tipico) che la protezione autoritaria dell’esercito (‘esercito permanente’ che impedisce anche solo di poter immaginare il costituirsi di un patto per la pace perpetua…), ne consegue il piacere non solo di evitare una cattiva complicità ma anche il rischio di asservirsene.
Ecco allora che il fine alla base del patto tra i due fratelli, ovvero occuparsi della fragilità del padre ma anche, come si vedrà, il non consegnare i ragazzini superstiti all’esercito, non annulla nel dovere e nel solo pragmatismo la vita per ciò che in sé contiene di irriducibile, vitale e gratuito, perché quello che infatti sembra, all’opposto, è che essa finisca per acquistarne in potenza. Come nel legame e negli affetti tra i tre fratelli; come negli amori: quello nuovo tra Angèle e il giovane Benjamin, che può più facilmente accadere se si smette di avere paura e difendersi, e quello ‘vecchio’ di Joseph, dove la dolente passione politica, anche dopo la sconfitta, non smette, e si direbbe con la forza della sincerità, di demistificare le false narrazioni correnti (quella identitaria, ad esempio, che consente al soldato nero di rifugiarsi nel vittimismo aggressivo); come nella solidarietà, che è sia un patto tra generazioni -l’assistenza al padre- che rifiuto dell’indifferenza verso la sofferenza dell’altro -il riparo e la stanza della casa di nuovo aperta, dopo anni di negazione del passato, ai tre profughi arabi (a proposito di rimozioni); come nell’espressione artistica, ovvero il teatro che forma coscienze ma che prima ancora aumenta, anche per via dell’uso del linguaggio e della memoria, la potenza di vita -vedi Benjamin; ma soprattutto come, infine, ne esprime la potenza per ciò che è la vita e la morte: che possono ritornare, evocate dalle voci dei tre fratelli francesi e dei tre fratellini arabi gettate nell’arco di un presente ribelle alla legge anche del tempo che porta via le persone -l’istante che ritorna nell’eco creato dalla voce umana diretta contro la superfice curva, circolare, dell ‘arco del ponte, un’immagine che anche questa è quasi una citazione (da Nietzsche?)-, oppure che possono farsi de-finitivamente mute, come quella, insieme dignitosa e tragica, dei due coniugi anziani, che si danno la morte pur di mantenere la loro libertà (economica, di giudizio, di non voler vivere, e vivere l’età più fragile, perché al corpo debole del vecchio, che è anche quello del bambino, si aggiunge l’averne coscienza, di non voler vivere senza il compagno di una vita). Anche qui non eterodirezione e determinismo ma scelta e discontinuità nell’immaginare ciò che chiamiamo ‘possibilità’.
Ecco allora che la libertà e l’uso che di essa ne fanno i tre fratelli ha qualcosa anche di toccante (ma più carne che retorica), perché sembra insieme la tensione di chi non accetta equilibri imposti e crea con le sue scelte, frutto anche di una non negazione del passato, mondi diversi -meglio, crea scelte nuove. Che poi, in un arco narrativo che ci riporta anche a Nietzsche e ai Karamazov, (tentazione appunto colpevole e irresistibile quando si liberano i collegamenti!), la tensione vitale è forse anche quella di chi sente che l’equilibrio non c’è mai ma che in fondo è proprio questo, questa dismisura paradossale, a reggerne la sua ricerca infinita. Come d’altronde anche nel cinema, che nel suo statuto irriducibile ha anzitutto l’ambiguità -‘immagine in movimento’, che insieme è sia realtà in trasformazione che falso movimento. Immagine che è sempre anche al passato. Tanto che Guédiguian, che ama il cinema tanto quanto i suoi personaggi, ne ‘approfitta’ per darci una lezione di come usare un vecchio film (il suo Ki lo sa, del 1985) in un modo non autoreferenziale ma estetico e insieme affettivo.
La scelta finale dei fratelli di mettere il letto del padre in salotto, insieme agli altri, e di prendersi cura attivamente della malattia, guardando un po’ oltre la circostanza (siamo in un film!), è forse allora anche quella di voler guardare il suo volto da vicino, di stare a contatto, cioè, con la sua fragilità che è quindi anche rendersi esposti allo sguardo dell’altro sulla propria -così che anche il concetto di bontà come atto soltanto volontaristico finisce forse per vacillare?
Molto altro ci sarebbe da dire sul rapporto dichiarato eppure anche naturale con la fabula, l’arte, la musica, il teatro che Guédiguian, ancora una volta, mette in scena con coerenza e libertà in La villa, ma preferiamo appoggiarci, ancora una volta e sicuramente con troppo agio, all’ennesima citazione -“che il realismo contemporaneo ti ha già tanto guastato che tu non possa tollerare nulla di fantastico; vuoi che sia un qui pro quo? E sia pure!”, dice Ivan Karamazov a proposito della cattiva coscienza.
Dunque, provando a concludere, questa è l’immagine ambigua che forse rimane dopo aver visto questo film: la prossimità, che è dei corpi e degli affetti, e insieme l’allontanamento nel tempo e nello spazio, che sta nei respingimenti dei migranti, nei conflitti tra i tre fratelli, soprattutto nella presenza costante e simbolica del passato (tradito, come in Angéle e nei due anziani, che non torna, come nel risentimento di Joseph, che infine torna e si trasfigura in nuove storie possibili, anche se alcune senza più le parole). Ma pensiamo che questa ambiguità, questi due piani, siano indissolubilmente intrecciati, così come lo sono anche la malinconia e la speranza, due vizi umani interessanti.
Aggiungo 2 commenti, uno mio e uno di Guediguian. Il primo: nell’ultima parte del film, il succedersi degli avvenimenti preannuncia una sorta di inversione di rotta: il treno, che per tutto il film sempre passava senza che nessuno gli prestasse mai attenzione, in una sola direzione (dal luogo della memoria, quasi del tutto disabitato, melanconico e immobile se ne andava, sfrecciando verso un futuro, fatto di rapidità e tecnologia, di meno tasse enuove mete di turismo) finalmente viene notato da Joseph, che alza lo sguardo e si sofferma a testa in sù: il treno torna. Torna verso un posto di villeggiatura di altri tempi, un porticciolo, ormai desolato e del tutto privo di attrattiva per due giovani “col cuore a sinistra e la testa a destra”, come Berangère e il motociclista-medico, “che da lì si porta via solo pochi souvenirs”, dopo la morte dei genitori. Questa località, torna invece ad essere una meta: diventa un potenziale approdo per chi è in cerca di una nuova casa (realtà emblematica di tutti quei piccoli villaggi, quei posti ormai disabitati, che appartenevano ai nostri nonni e pensavamo che sarebbero divenuti un giorno città fantasma, ma che, invece, sono portate a nuova vita da persone che arrivano da nuovi paesi, che devono lasciare i propri luoghi e sono pronti a ripartire da dove noi non siamo più interessati ad andare, a ricostruire la loro vita in quei posti che noi, a lungo andare, avremmo destinato altrimenti all’oblio).
Guediguian, durante il dibbattito con gli spettatori in sala a Roma, ha definito i tre fratelli protagonisti del filme “troppo poco egoisti per essere felici oggi”. I due ragazzi, invece, dico io, i più giovani, che aspirano, in fondo “a fare soldi” e una vita diversa a Londra, hanno sicuramente più possibilità di adattarsi al mondo dell’oggi, così com’è. Sono più disposti ad adattarsi a quel che c’è, perchè troppo difficile da cabiare. I tre piccoli fratelli, invece, hanno più tempo davanti a sè e sono stati costretti a ricomincare tutto, ripartendo da una capanna nel bosco. E, chissà, avranno la possibilità, forse, di immaginare una realtà futura in cui non sia indispensabile l’egoismo per essere felici?