[**12] – Arriva in Italia No one knows about persian cats (I gatti persiani) di Bahman Ghobadi, un docu-fiction sulla musica underground in Iran, presentato lo scorso festival di Cannes nella sezione Un certain regard.
Il significato della parola underground é da prendere qui alla lettera: il titolo metaforico del film, ispirato da una legge che vieta di portare cani e gatti domestici fuori casa, si riferisce, infatti, ad un folto gruppo di giovani musicisti rappresentanti di tutti i generi – dall’indie pop all’heavy metal, dalla musica tradizionale rivisitata alle canzoni da cantautore, dal rap urbano al rock – che devono costantemente nascondersi nei luoghi più improbabili per potere dare libero sfogo alla loro passione artistica.
Al giorno d’oggi in Iran non è permesso suonare questo tipo di musica considerata potenzialmente sovversiva: i concerti pubblici sono vietati, le autorizzazioni ufficiali per registrare un disco sono rare e difficili da ottenersi, le sanzioni per chi non si attiene ai regolamenti in vigore sono dure. Incarcerazione e pene corporali –fustigazione – possono colpire chi viene sorpreso nell’atto di infrangere la legge.
I gatti persiani é un film di denuncia, senza dubbio coraggioso nel contesto politico attuale di questo paese. Ovviamente, ed é soprattutto questo che il film intende mostrarci, nonostante le restrizioni, le difficoltà ed i pericoli c’é una grande quantità di artisti che non é disposta a rinunciare alla sua passione per la musica e trova tutti i mezzi possibili e immaginabili per eludere questi divieti.
Ghobadi ha spiegato ai giornalisti di avere girato il suo film senza autorizzazione ufficiale in soli 17 giorni seguendo le tracce di una serie di formazioni musicali underground a Teheran. Il regista ha scelto di presentarci questo materiale documentario sotto forma di finzione costruendo intorno alle performances musicali una storia che dovrebbe servire a fondere in un tutto organico un insieme di espressioni artistiche assai distinte. No one knows about persian cats si situa da qualche parte fra The Comittments di Alan Parker, una commedia musicale agro-dolce sulla formazione di un gruppo rock in Irlanda e Crossing the Bridge una docu-fiction di Fatih Akin sulla scena musicale turca contemporanea.
Il film ci racconta la vicenda di Ashkan Koshanejad et Negar Shaghaghi, un ragazzo e una ragazza appena usciti di prigione, incarcerati per avere fondato un gruppo clandestino di Indie Rock. Ashkan e Negar rappresentano se stessi nel film e la loro vicenda personale serve, fino ad un certo punto almeno, da base alla trama della pellicola. I due ragazzi, che appartengono alla classe media e benestante del paese, vogliono andare in Inghilterra: non sono dei dissidenti politici, hanno solo voglia di vivere a fondo la loro passione per la musica. Le autorità permetteranno loro di partire solo se dimostrano di avere formato un gruppo musicale di cinque membri fra cui due donne. Il film segue l’epopea della coppia alla ricerca di un passaporto dei tre musicisti mancanti, nonché della preziosissima autorizzazione a lasciare l’Iran. Ashkan viene messo in contatto con Nader il terzo protagonista del film, una specie di impresario che vive della vendita di dvd e cd illegali, un tipo sveglio, un po’ vanaglorioso, chiacchierone che conosce tutto e tutti.
Interpretato da Hamed Behdad, unico attore professionista della pellicola, il personaggio di Nader è chiamato ad aggiungere un elemento comico alle peregrinazioni dei due giovani, ma finisce presto per stancarci con il suo fare eccessivamente caricaturale. La prima tappa del viaggio di Ashkan e Negar negli anfratti di questa vita nascosta e illegale é la visita ad un vecchio trafficone. L’uomo promette, in cambio di una salata ricompensa, di procurare loro i passaporti e i visti di cui hanno bisogno per partire. Guidati da Nader, i due ragazzi si lanciano così alla ricerca dei loro musicisti. I luoghi che visitiamo sulle orme dei protagonisti sono uno più improbabile dell’altro, dei nascondigli creati dal nulla, frutto della creatività e della voglia di fare musica a tutti i costi. Questi spazi clandestini devono soddisfare una condizione fondamentale: non devono permettere che il suono trapeli all’esterno.
I musicisti si rifugiano da un lato negli scantinati, dall’altro in camerette “insonorizzate” allestite con mezzi di fortuna sulle terrazze dei caseggiati di Teheran. Non mancano delle soluzioni “alternative” come gli edifici in disuso e perfino le stalle con tanto di mucche: tutti i posti vanno bene, purché vi si possa suonare senza pericolo di venire scoperti.
I gatti persiani ci trascina sull’onda di quest’energia irrefrenabile; i musicisti che vediamo ci fanno vibrare all’unisono con la loro musica e con il loro enorme entusiasmo, da soli avrebbero potuto nutrire un film intero. Perché dunque non fare “semplicemente” un documentario? Inoltre, mentre tutto il film é girato con una cinepresa mobile che segue in maniera realistica le deambulazioni dei due personaggi principali dedicando loro dei lunghi piani-sequenza, il trattamento estetico riservato ai gruppi musicali è radicalmente opposto. Ogni volta che i musicisti iniziano a suonare le loro immagini vengono puntualmente sostituite da un montaggio iper-rapido di scene di vita urbana chiamate ad illustrare vagamente il contenuto delle canzoni. Se da un lato queste raffiche visuali compongono il ritratto di una città nervosa, mobile e desolata poco assimilabile alla sua faccia istituzionale, dall’altro distolgono troppo la nostra attenzione dalle parole dei testi che, nel contesto in questione, sono particolarmente significative. Nel suo recente documentario su Teheran, A People in the shadows, Bani Khoshoudi, giovane regista di origine iraniana, ha filmato anche un concerto clandestino di rock: la concentrazione, il silenzio, la commozione del pubblico é palpabile nelle sue immagini, la scena é pervasa da un raccoglimento quasi religioso. Queste scene reali, osservate con pudore, riescono a toccarci e a commuoverci molto di più dei vari concerti sottoposti, nel film di Ghobadi, alla manipolazione di un montaggio da videoclip .
Puntando sulla finzione il regista ha voluto, penso, trasmetterci in primo luogo l’immenso entusiasmo, la forza, l’energia di questi giovani pronti a sfidare ogni tipo di difficoltà per trovare uno spazio di espressione e di libertà. Il film si snoda su un tono volutamente leggero, una serie di situazioni in sé poco amene sono sdrammatizzate costantemente con un tocco comico tanto da convincerci che la storia che stiamo guardando termini con un happy end.La sequenza finale é invece un vero pugno nello stomaco. In pochi istanti la situazione precipita e i sogni dei due ragazzi sispezzano per sempre.
Nella vita reale Ashkan Koshanejad e Negar Shaghaghi sono riusciti a lasciare l’Iran senza incidenti; entrambi erano presenti a Cannes per la proiezione del film e si sono detti felici di poter finalmente fare della musica senza doversi più nascondere. Nonostante I gatti persiani sia stato accolto molto favorevolmente sulla Croisette – il film ha ricevuto anche un
a menzione d’onore dalla giuria di Un certain regard – Ghobadi, ha dichiarato di essere molto preoccupato a proposito del suo avvenire professionale in Iran dopo questo film. Concludiamo menzionando il fatto che il regista ha scritto la sceneggiatura di I gatti persiani con la sua compagna, la giornalista irano-americana Roxana Saberi. Accusata di spionaggio da Teheran lo scorso aprile e condannata in un primo tempo a sette anni di reclusione, Roxana Saberi é stata liberata, in seguito a forti pressioni internazionali, da un tribunale di seconda istanza giusto pochi giorni prima dell’inizio del festival