di Marino Galdiero/ L’amore, null’altro che l’amore, di questo si tratta. Del suo mistero, di quanto le nostre relazioni amorose – pacifiche o burrascose – siano assolutamente uniche e su cui il giudizio esterno si riduca a qualcosa di parziale e talvolta fuorviante. L’amore in questo film viene ritratto, al di là delle contingenze psicologiche e storiche (anche se vengono considerate), nella sua assoluta singolarità di un uomo e di una donna che si incontrano, pur restando – nell’andirivieni delle pulsioni – uno opaco all’altro, intraducibili in una cifra comune che non sia quella della nevrosi. Ma forse già siamo dentro il recinto del giudizio che toglie e riduce quanto rimane libero da una diagnosi concettuale.
Il primo atto di questo incontro gira intorno ad una indomabile attrazione – elementare e segreta – sui cui poi regolare le reciproche smanie di potere, cedendo e offrendo, piegando e rialzando, affondando ed emergendo. C’è un equilibrio omeopatico che pian piano, inquadratura dopo inquadratura, acquista consistenza nella relazione di coppia de Il filo Nascosto, non arriva subito, ci vuole del tempo, ma il risultato resta incerto, perché la cura alla propria solitudine è un farmaco che può essere salutare o velenoso, dipende sempre dalle dosi assunte e dalla capacita del nostro organismo di rispondere o meno. L’amore avvelena e cura al tempo stesso, ci racconta questo straordinario film di Paul Thomas Anderson. E potrebbe essere altrimenti? Se così non fosse non ci sarebbero storie, di cui riconosciamo un senso generale non banale, grazie a tratti assolutamente singolari.
Insomma possiamo sottoporre Reynolds Woodcock e Alma al giudizio, definirli due folli simbiotici, lui un narcisista incapace di riconoscere l’altro davanti a sé, lei inizialmente sottomessa e poi caparbia nel tenere testa a uomo che sarebbe più facile lasciare: un cambio di posizione che introduce di nuovo un’asimmetria tra i due, una dipendenza in senso contrario, un gioco di potere che non soddisfa appieno le proiezioni idealistiche sull’amore dello spettatore. A questo punto per toglierci dagli occhi l’indigesta visione dell’amore singolare, esorcizziamo con il riso e con un consiglio ironico di senso comune: perché non vanno in terapia di coppia? Per Paul Thomas Anderson queste non sono che approssimazioni: l’amore – come del resto la vita, sembra dire – è irriducibile ad una trasparenza di senso; anche quando trova un fondamento stabile e duraturo nel matrimonio – almeno nell’Inghilterra degli anni Cinquanta – il corpo dell’amato resta un punto interrogativo sia in quanto desiderio che in quanto godimento, fuori e dentro la stanza da letto.
Questo mistero dell’amore e dei corpi che il film mostra corrisponde a quella che chiamiamo esperienza estetica, in quanto sfugge ad un protocollo di intesa univoco o a una qualche utilità comunicativa, per invece aprirsi a più possibilità interpretative. Quindi – per fare un esempio – sotto una certa etichetta, potremmo considerare Woodcock l’emblema di una cultura patriarcale, che si serve delle donne nella sua sartoria, senza per nulla condividere il potere, e l’intero film un’esplorazione di un cambiamento dei rapporti di forza, sino alla dissoluzione del predominio maschile. D’altra parte questo creatore di abiti di alta moda non è un bambino ferito dalla morte precoce della madre? Non è per questo che da grande si è trasformato in una sorta di orco? Le donne sessualmente desiderabili vengono liquidate dopo poco tempo di convivenza comune in una sprezzante indifferenza. L’insieme del film è poi un dialogo costante con Rebecca (1940) di Hitchcock, con parti della trama che si sovrappongono e somiglianze tra le attrici (Vicky Krieps e Joan Fontaine), con motivi formali che recuperano e superano in modo non ingenuo il genio della suspense.
Il Filo fantasma (il titolo originale è Phantom Thread) non nasconde un patto simbolico con una super-madre che richiede un sacrificio al figlio, proprio nella tormentosa e ossessiva dedizione alla confezione di abiti, in cambio di una monacale e mortifera gloria artistica? Probabilmente sì. Inoltre quei vestiti eleganti che coprono i corpi, non sono forse una strategia di contenimento, nei confronti dell’eccessivo materno, una elegante e algida costruzione che arresta l’elemento intrusivo, negando tuttavia la tenerezza degli affetti? Probabilmente sì. L’assenza di ogni figura paterna non prefigura una diminuzione della libera espressione, altrimenti detto: di un linguaggio capace di articolare risposte alternative? Alma, in qualche modo genialmente, non induce alla regressione Woodcock, proprio per alleviare la sua pena, e condurlo in qualche modo verso il proprio sé?
Ma tutto questo è amore? La domanda non è esatta. Sarebbe meglio porla differentemente. Ovvero: di cosa parliamo quando parliamo di amore? Di storie, di storie singolari.