[*****] – Nelle orecchie ancora la musica di Carlo Crivelli, negli occhi la forza delle immagini di Marco Bellocchio, la luce di Daniele Ciprì, lo straordinario montaggio di Francesca Calvelli, la potente bravura di Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno. E’ la quasi terza (quasi perché per motivi di lavoro della seconda ne ho potuta vedere solo un due terzi) visione dell’ultimo film di Marco Bellocchio, Vincere, da cui esco ancora una volta in uno stato di pienezza. La sala quasi piena, un bell’applauso alla fine, la gente che rimane fino all’ultimo titolo di coda (cosa rarissima). Vi chiederete se non mi sono ancora stancata di vedere e rivedere lo stesso film a distanza di pochi giorni. Ebbene no.
Il vedere un capolavoro (e si contano sulle dita di una mano quelli che escono in un anno), il chiudersi per circa due ore nella sala buia di un cinema in sua compagnia è un po’ come avere un incontro d’amore con un bell’uomo interessante (o con una bella donna, se preferite). E scoprire via via elementi di cui innamorarsi, frammenti della sua storia, del carattere, che ce lo fanno piacere sempre di più, parti del corpo con cui si vorrebbe fare l’amore, che si vorrebbero toccare, amare… Così è con il film, lo puoi vedere e rivedere e scoprire sempre qualcosa di nuovo: un particolare dell’inquadratura, una speciale liaison di montaggio, un contrappunto musicale che era sfuggito, un’espressione dell’attore la prima volta ignorata perché presi dalla storia. E’ come spogliare un corpo pian piano, indovinarne prima le forme sotto i vestiti, poi scoprirlo: vedere la pelle, i nei, amare anche le sue imperfezioni, una particolare ruga…
Così è stato per Vincere: a ogni visione si scopre e si ama qualcosa in più condotti per mano dall’amante/amato regista. E’ lui infatti che ci conduce nella camera segreta, che guida l’incontro. Messi comodi e pronti a lasciarsi andare? Il viaggio avrà inizio. Un viaggio unico, piacevolmente sconvolgente, appassionatamente travolgente, diverso da tutti i precedenti, che condurrà all’oggetto maggiormente amato dal conducente: il cinema. Vincere racconta sì la drammatica storia di Ida Dalser (una Giovanna Mezzogiorno perfetta nel darle volto e animo) probabile prima moglie di Benito Mussolini (un insuperabile Filippo Timi) e madre del suo primogenito (Benito Albino): entrambi moriranno in manicomio. Ma è anche un atto d’amore verso il cinema e i suoi componenti: immagini, suoni, musica, corpi degli attori e sala cinematografica. Raccoglie in sé tutto il cinema del maestro (sarebbe possibile fare un divertente gioco di citazioni e rimandi. Per rompere il ghiaccio proponiamo quella più evidente: il duello che rimanda direttamente a L’ora di religione), ed è al tempo stesso anche un omaggio al Cinema, a cui l’artista ha dedicato tutta la propria vita (si potrebbe dare il via a un secondo divertente gioco di citazioni dalla storia del cinema). Non siamo di fronte però a un puro gioco d’immagini, a un vuoto estetismo, ma come vedremo è una scelta congeniale alla storia e al racconto.
Un artista, anche quando sembra lontanissimo dal presente, racconta il proprio tempo in modo profetico, andando al di là della semplice cronaca… Marco Bellocchio, che è un Artista con la A maiuscola, per raccontare i nostri giorni sceglie un periodo storico (l’ascesa del fascismo) e una vicenda rimasta nascosta per decenni (l’esistenza di Ida Dalser). Sicuramente Bellocchio è rimasto affascinato da questa donna che porta avanti la propria verità al di là delle conseguenze, quasi ingenuamente senza pensare alle ripercussioni (messa in pericolo e perdita della propria vita e di quella del figlio). Ida è come tanti personaggi di Bellocchio (rimandiamo al pezzo di Edoardo Zaccagnini) e come è il regista stesso, che non scende a compromessi per urlare la propria verità sul mondo, sulle istituzioni (chiesa, manicomio, stato), sulla famiglia (istituzione intoccabile in Italia quanto la chiesa). Bellocchio va alla radice dei nostri tempi, dove è nata la nostra democrazia. Siamo infatti, nel 1915, poi tra le due Grandi Guerre, fino all’ascesa del fascismo alla fine del quale è nata la nostra Repubblica: un periodo oscuro, poco raccontato, ma che non possiamo ignorare per capire i nostri giorni. Bellocchio non è però uno storico, non fa film storici, documentari, il suo è un modo del tutto personale di porsi davanti alla Storia, di raccontare una vicenda, di prendere e trasformare gli elementi reali in qualcosa d’altro che ha più forza e pregnanza della realtà stessa, che racconta più delle sole immagini tratte dal reale (pensiamo al racconto della vicenda Moro in Buongiorno, Notte).
Oggi, siamo immersi nelle immagini; tutto passa attraverso esse e attraverso l’immagine che della realtà e delle persone costruiscono i media (giornali, tg…). La forza di chi ci governa è costruita non su fatti reali, ma sulla propria immagine. Cosa c’è di più vuoto di un cartellone sorridente, di discorsi ritrattati il giorno dopo, di filippiche contro pericoli inesistenti (la realtà è un’altra) o ormai sorpassati da decenni, di giocare a governare come se si fosse dentro un film comico dove valgono di più la battuta (creduta divertente) che il fare e il gesto irriverente e fuori luogo (creduto scherzoso), convinto che l’andare contro ogni legge morale e civile sia permesso? Da dove è iniziata la costruzione del potere attraverso l’immagine e la propaganda? Dove è iniziata la fascinazione di un’intera nazione per un leader la cui forza è costruita sull’immagine? Proprio in quegli anni. Lì si proferivano discorsi senza contraddittori davanti alla folla di Piazza Venezia. Oggi la piazza è sostituita dalla platea televisiva davanti a cui si ritrovano milioni di persone ed è lì che si vanno a fare i propri proclami, sempre senza un contraddittorio perché non si sarebbe in grado di rispondere a delle domande, capaci solo di pronunciare vuoti discorsi imparati a memoria, slogan d’effetto buttati lì… Ma ancora una volta con un forte potere di fascinazione sulla platea: perché? Quali meccanismi portano a questo sorta d’ innamoramento? Ed ecco che Bellocchio che non dà risposte, ma pone interrogativi (gli artisti non sentenziano), riflessioni da fare, smonta questo meccanismo attraverso la storia di Ida Dalser, donna trentina, forte e moderna per i suoi tempi, che va a studiare a Parigi, per aprire poi un proprio salone a Milano. Ida s’innamora perdutamente (forse in parte ricambiata) di Benito Mussolini (ancora socialista rivoluzionario). In amore è remissiva quasi sottomessa, ma poi una volta lasciata, cancellata dall’uomo amato diventa una tigre dal carattere indomito che non si ferma davanti a niente pur di gridare la verità e ottenere quello che vuole (il riconoscimento del proprio ruolo, il riconoscimento della propria esistenza: “se muoio chi si ricorderà di me?”), andando contro tutto e tutti. Mentre viene cancellata l’esistenza di Ida che non smetterà mai di amare Mussolini, Benito diventa il Duce, sempre pi&
ugrave; potente e amato dalla folla, trasformandosi da “uomo” a “immagine”.
Quando Benito Mussolini diventa il Duce, sparisce l’attore per dare spazio alle immagini (vere, d’archivio): avrebbe potuto continuare ad impersonarlo Timi, (lo vediamo infatti fare una divertente, straziante e credibilissima imitazione di un discorso del Duce), ma la critica a chi ha costruito il proprio potere sulla propaganda, acquista maggior vigore proprio nell’averlo mostrato solo in immagini piatte, di repertorio, in bianco e nero, in un bagno di folla, mentre proferisce discorsi ridicoli (che hanno strappato delle risatine in sala), nel far vedere dei proseliti fare il meccanico saluto fascista davanti a un’immagine in movimento (al cinegiornale proiettato al cinema). Discorso completamente diverso quando Mussolini è ancora giovane, rivoluzionario socialista e non ancora immagine: è affascinante, bello, carnale. La macchina da presa studia i corpi dei due amanti (Ida e Benito), sembra fare l’amore con loro, come anche lei innamorata della fisicità dell’uomo. Ma anche nei momenti più intimi Mussolini è con il pensiero da un’altra parte: sa che non sarà mai contento, che non accetterà mai di essere un mediocre, che vorrà andare oltre la morale, oltre tutto. Lo sguardo ne è traditore (in quello sguardo perfettamente reso da Timi c’è tutta la megalomania, la “pazzia” di Mussolini). Bellocchio va ancora oltre la bravura dell’attore, rappresentando l’inconscio attraverso immagini di repertorio che montate ejzeinsteinianamente insieme al primo piano dell’attore acquistano un’inaspettata forza profetica: dopo aver fatto in modo passionale e un po’ animale l’amore con Ida il giovane Benito si alza, va nudo sul terrazzo, sotto la piazza è vuota, ma nella sua mente vede la folla di Piazza Venezia (ed ecco l’immagine di repertorio dei famosi bagni di folla). Pensiamo ancora alla sequenza in cui Mussolini è ferito in ospedale, con la testa bendata e il suo primo piano si alterna con quello di Cristo morente sulla croce protagonista del film che stanno proiettando sul soffitto dell’ospedale da campo improvvisato in una chiesa. Contrappunto tra Mussolini e Cristo in croce e tra Rachele vestita da crocerossina e la madonna velata e in lacrime sotto alla croce.
Vincere si rifà all’estetica del cinema di quegli anni, trasformandola in qualcos’altro. Erano gli anni del cinema muto, un racconto per immagini accompagnato da musica dal vivo. Vincere ha lunghe sequenze senza dialogo, con partitura musicale, che danno vita a una sinfonia per immagini che non annoia mai, che non perde mai la sua forza e il suo mordente. Veri momenti di poesia che si contrappongono uno dopo l’altro in un montaggio a perdifiato dove non c’è spazio per la prosa, il dialogo. Tra le tante ricordiamo la sequenza in cui Ida dorme nella casa della sorella, sogna (o ricorda) il matrimonio con Benito, si alza, vede sul giornale che sta per arrivare a Trento il braccio destro del Duce (Pietro Fedele), nasconde i documenti importanti, esce (eludendo la vigilanza), corre tra i campi fino alla città, si mette le scarpe belle, va incontro a lui seguito dalle autorità locali (laiche e religiose), scambio di sguardi tra Ida e Fedele, arresto di lei che viene brutalmente spinta in macchina, picchiata, risveglio in manicomio con il volto di alcune matte che guardano Ida (novella Giovanna d’Arco dreyeriana) dall’alto e una canta.
Bellocchio ci fa immergere nell’atmosfera di quegli anni, in una sorta di incubo dall’impossibile risveglio. Nebbia e pioggia e inganno dominano il racconto. La storia tra Ida e Benito è iniziata con un sotterfugio (il fascismo è iniziato con un inganno): lui la bacia per difendersi dalla polizia. E con il sangue che rimane tra le dita di Ida. E’ notte, c’è nebbia. In uno dei pochi momenti di tenerezza tra Ida e Benito mentre sono seduti su una panchina e lui dice che vuol essere più di Napoleone, che vuole andare oltre la morale, passano davanti alla coppia un gruppetto di bambini non vedenti, presagio dell’Italia che sarà (accecata). Come Ida, accecata dall’amore, sarà in trappola e l’unica via d’uscita sarà la morte. Con l’avvento del fascismo la nebbia degli anni del loro amore si trasforma in pioggia (lacrime per la perduta libertà?). Piove sempre e oltre a Ida e ai suoi familiari in giro per la città, per i paesi solo camicie nere che controllano, pestano (a una festa socialista picchiano a sangue vecchi contadini), licenziano (il cognato ha paura di perdere il posto se non diventa fascista), controllano ogni mossa (stanno davanti alla casa di Ida e ne sorvegliano ogni mossa), perquisiscono, arrestano (anche il piccolo Benito Albino). E Ida sembra un animale in gabbia che non ha via d’uscita. Si arrampica per vedere il suo Benito che parla alla redazione dell’Avanti (la segretaria vorrebbe impedirle d’entrare, perché non le è permesso, ma lei sale su una sedia per vedere oltre la porta vetri e ammirare l’uomo di cui è innamorata); si arrampica sulle inferriate del manicomio per urlare al mondo esterno la propria esistenza (ma l’uditorio è un gruppo di ragazzini che sanno risponderle solo con il saluto fascista), si arrampica sull’albero del manicomio di San Clemente per urlare la propria verità (ma come le dice lo psichiatra non è il tempo adatto per dire la verità, per sopravvivere bisogna saper recitare il ruolo della donna sottomessa, madre di famiglia), si arrampica sul cancello del manicomio per uscire. Con scatto felino, in un gesto vano di libertà sale sul tavolo dell’interrogatorio in manicomio. Si arrampica nuovamente sulle inferiate di Pergine in una struggente e bellissima sequenza sotto la neve in cui lancia le centinaia di lettere che scrive quotidianamente per cercare di essere ascoltata da qualcuno (Papa, Re, Mussolini, polizia) mentre il figlio in collegio cerca di gridare la propria identità.
Il piccolo Benito, infatti, è rimasto solo nello stanzone del collegio e per Natale riceve un regalo dalle suore e i preti suoi insegnanti. Sul pacco, un nome e cognome che invece che identificare il destinatario lo cancellano: Benito Dalser (il vero cognome del bambino è però Mussolini). Così, in una sequenza che toglie il fiato, il ragazzino corre nei corridoi bui del collegio alla fonte dei suoi drammi, di colui che l’ha cancellato, butta a terra il busto del padre e poi corre a nascondersi sotto i letti. Busto che vedremo stritolato alla fine perché non vincerà neppure il Duce: una scritta finale spiega che è stato fucilato dai partigiani, ma ancor di più può la scena che chiude il film dove si vede schiacciare il busto di Mussolini dopo averlo rivisto giovane sfidare Dio a fulminarlo (scena con cui si era aperto il film). Da sotto i letti il piccolo Benito comincia a urlare alle suore che cercano di calmarlo che si chiama Mussolini, urla il proprio nome fino a chiedere: “come mi chiamo io?”. Benito Albino cambierà ancora – per la terza volta – cognome perché sarà adottato da un fascista, cancellando completamente la sua identità (siamo un paese senza padre?).
Il cinema è il registro ideale per raccontare e criticare questo periodo storico in cui l’immagine ha cominciato a diventare dominante, in cui chi governava ha
costruito il proprio potere attraverso l’uso delle immagini – anche del cinema. E il cinema è il luogo privilegiato per incontri, scoperte significative, della vita sociale: è una sorta di nota ricorrente, che fa da contrappunto a tutti gli altri luoghi della vicenda (il film è girato quasi tutto in interni e sono pochi i luoghi in cui si muovono i personaggi anche perché Ida è vissuta prigioniera della casa della sorella e del manicomio). Al cinema vanno Ida e Benito per vedere i cinegiornali, ci va Ida con il bambino. Pensiamo poi all’importanza della sequenza del cinema all’aperto nel manicomio di San Clemente quando lei si commuove a vedere Il monello di Chaplin. Al cinema Ida vede Mussolini diventato il Duce. Nella sala cinematografica vi si rincontrano zio e nipote dopo anni.
accidenti! una dichiarazione d’amore appassionata! condivido tutto. molto bella l’intuizione della nascita del fascismo come sotterfugio, come inganno. e bella questa immagine di lei che si arrampica ovunque, come un gatto ribelle… E’ vero che questo film va visto e rivisto e rivisto…perché sono pochi i film dove puoi trovare così tante cose. E in questo nostro momento di immagini vuote, c‘è proprio bisogno! grazie per questa lettura appassionata. c‘è bisogno anche di questo.
Ollie