di Alessia Brandoni /Che rapporto c’è tra lo spazio pubblico e la percezione di chi lo abita? Come alcuni elementi condizionano e influenzano le identità dei soggetti in gioco? E in che misura? In questo caso stiamo parlando delle storie di formazione di alcuni ragazzi vicini quanto a dato anagrafico ma molto lontani quanto a geografia e approccio alla vita: Beirut e Los Angeles, anzi, Hollywood. E dunque One of these days, del libanese Nadim Tabet, e Junior, della statunitense Zoe Cassavetes (la figlia del grande inventore e anticonformista John). Che se visti in parallelo dicono appunto quanto sia differente la percezione del reale, e quindi diverse le soggettività e le forme di ribellione, se si vive troppo vicini a bombe e posti di blocco piuttosto che immersi –ovvero concentrati in spazi ristretti e senza soluzione di continuità- dentro smartphone, Facebook, Instangram, Tinder & Co –quasi invisibili, le luci provenienti dalla vicinissima Hollywood.

L’adolescenza è una questione di tempo e di spazio tanto quanto di privato e di pubblico, ma molto –il prendere coscienza e l’immaginare pratiche di libertà, ad esempio- dipende dalle circostanze e dai luoghi. E forse è anche per questo –per evitare, cioè, questa tentazione di uniformare tutto all’interno di un canone dominante, di una norma, di un’anima- che fa ancora bene andare ai festival di cinema internazionali. Anche alla Festa di Roma.

A questo punto, ci sembra non fuori luogo fare un piccolo detour su ciò che questo vuol dire anche rispetto alle forme di identificazione al cinema. Andando dalle forme più tradizionali, tipiche del cinema americano classico, con cui l’industria poteva veicolare il mito nei costumi dello spettatore (a volte letteralmente), a quelle più moderne, e spesso autoriali, tramite cui poter vedere (e ancora identificarci) con i desideri e le ossessioni dell’autore, del suo sguardo, più che con le vicende dei personaggi – e rileggiamo Serge Daney per darcene conto senza che la paura di venire rottamati, magari dall’Hazanavicius di turno (sì stiamo parlando del revisionismo che performa Il Mio Godard), ci divori (questa volta, sì) l’anima.

In questo senso, ci sembra che i ragazzi libanesi possano ancora esprimere sia il loro sguardo su quello che stanno guardando, e che ha ancora a che fare con l’imprevedibilità della realtà (sottolineata dai numerosi piani sequenza in asse con il movimento dei mezzi di trasporto per le strade, dall’andare in motorino in mezzo a tutto il resto, dal cambio di luce che disegna il giro di ruota del luna park, dalla magnifica scena in cui Maya si lava nel fiume dopo aver fatto sesso per la prima volta), sia ciò che la ribellione, l’amore e l’amicizia possano significare per il regista -insomma lo sguardo dell’autore, il suo stare in relazione anche con quello dello spettatore. E l’autore sceglie di farlo attraverso il ‘discorso intorno alle cose’, tipico della nouvelle vague, e il luogo al tempo stesso primario e passibile di riconfigurazione che è il corpo, come nella bellissima scena in cui Yasmina, tramite i giochi con l’amica Maya, entra in contatto con una parte diversa del suo desiderio e ancor più di sé e del suo stare nel mondo –“attraverso il corpo si può abitare in maniera diversa, al fine di investire di significati nuovi lo spazio pubblico ma anche l’ambiente”, dice la performer e femminista Rachele Borghi, sottolineando, in questa prospettiva, la stretta e suggestiva correlazione tra eccedenza ed ecologia delle relazioni. La fine rimarrà incerta e non priva di malinconia, ma assieme alla perdita di innocenza di Maya, all’inquieto bisogno di cura e affetto di Yasmina, al rapporto con la memoria di Fuad, ciò che troverà spazio, come nel migliore romanzo di formazione, ma riconfigurato, sarà l’affermazione irrinunciabile di cambiamento (nonostante il dominio in cui è caduto il mondo continui a bombardare gli orizzonti poco più a Nord, a Beirut il romanzo di formazione è ancora possibile, sembra volerci dire Tabet).

In Junior, invece, diluito nella forma più rassicurante del teen-serial, all’identificazione classica, impossibilitata dall’iperrealismo adottato dalla regista, neppure si oppone l’affermazione di principio di volerle preferire quella post-moderna -o comunque quella mediata dallo sguardo e dal linguaggio, soggetti terzi che indicano un modo possibile di costruirsi un’identità. Piuttosto siamo dalle parti del compiacimento, del qualunquismo della post-verità, e siamo anche nel tranello di una contraddizione, poiché, a ben vedere, lo sguardo della regista non fa che mostrare mimeticamente la virtualità delle vite dei ragazzi producendone di fatto una sua naturalizzazione. La conseguenza di questo corto circuito dello sguardo (molto lontanto, però, da esperimenti come quelli di Powell in L’occhio che uccide, ad esempio) è quella di contribuire a creare, performativamente, apparenze di identità (marcatamente fashion); magari ricevendo in cambio, quale pelosa consolazione, il pensarsi emancipate (le protagoniste sono due adolescenti) bastando in tal senso l’assumersi il ruolo di agenti della mediazione (girano parte del film che vediamo in presa diretta con lo smartphone) –laddove quel che invece ricreano, seppur con apparente leggerezza, sono tante nuove prigioni e tanti nuovi abissi, buchi neri che annullano il tempo della scelta.

Sempre Daney diceva che nel cinema ogni volta si tratta di un movimento di luce verso qualcosa, una luce che viene dall’esterno e che passa per la camera oscura.

Con un po’ di licenza, potremmo dire che quella luce è la stessa che appare all’orizzonte dei ragazzi di Beirut e che vediamo invece mancare nei selfie tristi delle teen-ager losangeline.

E pensando ancora un secondo a quel movimento di luce verso qualcosa, ci viene in mente l’acustica elettrificata dei CSI: Non si non si teme il proprio tempo è un problema di spazio.

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