di Fabrizio Croce/I want you canta Bob Dylan sulle immagini di un quartetto di giovani in una macchina che il cui interno,grazie al finestrino aperto, è invaso dalla luce e dal vento.
Sono tre ragazzi e una ragazza, e sono tutti sorridenti, scambiandosi sguardi complici e pieni di desiderio e voglia di vivere. Quella leggerezza e quella vitalità che li porto poi a giocare e a buttarsi in acqua dal molo del piccolo villaggio turistico dove, presumiamo, sono nati e cresciuti.
I want you, I want you,I want you ripete Dylan in un dei suoi pezzi più popeggianti, spensierati e affamati di vita e,stando alla data di uscita di questo brano, la scena in questione dovrebbe essere datata 1966.
Ma Robert Guediguian, regista de La Villa, non concepisce il tempo in un senso cronologico, ogni immagine e ogni segno vengono elaborati attraverso il processo personale della memoria, che è dei personaggi del film in questione, ma anche di tutto il suo percorso cinematografico a partire almeno da Marius et Jeanette del 1997 , grazie al quale ha cominciato ad avere una visibilità anche al di fuori dei confini francesi, a far conoscere la sua poetica: quest’anno festeggia così il teorico ventesimo
anniversario del piccolo mondo di relazioni e affetti che ha creato fuori e dentro al set.
E qui I volti e i corpi del suo cinema ci sono tutti, a cominciare da Ariane Ascaride ,sua moglie da più di trent’anni, che, sfidando ogni cliché di bellezza e seduttività , ha spesso filmato come una donna passionale, sensuale, desiderabile nonostante, o forse proprio perché, calata in una realtà problematica dal punto di vista sociale come quella di Marsiglia, in cui i conflitti etnici, le differenze di classe e la cronica precarietà del lavoro si attaccano sulla pelle e rendono vivi e vibranti gli individui che la popolano. In un film di qualche anno fa, Marie Jo e i suoi due amori, Ariane era una donna che
opponeva resistenza al senso di alienazione e di isolamento della sua esistenza, vivendo fino in fondo, la passione per un marito e per un’amante, anche e soprattutto dal punto di vista fisico: quelle scene di sesso, forti, emozionanti, esplicite senza nessun compiacimento o morbosità, erano attaccate ai corpi imperfetti e ai volti che già cominciavano ad essere consumati dal tempo della Ascaride e di Jean Pierre Daroussin e Gerald Meylan , gli altri due attori della “famiglia” Guediguian, che ne La Villa transitano da una laison a trois a una triade di fratelli riunitisi nella maison dell’anziano padre malato e morente; Sembrerebbe l’occasione del classico confronto, catartico o meno, un topos del cinema e della letteratura che indagano le primarie relazioni famigliari e le complesse dinamiche che ne derivano.
Lo sguardo e la scrittura del regista sceneggiatore sono altresì talmente precisi, attenti ai particolari e lucidi, e rivelano una conoscenza così profonda degli ambienti, delle situazioni,dei personaggi e dei loro attori, da permettere di assistere a qualcosa di molto intimo, uguale a nient’altro che non siano dei rimandi o delle reminescenze di quanto già espresso precedentemente da quell’idea, o diremmo meglio da quel sentimento sul cinema.
Robert Altman sosteneva che i suoi film erano molto “incestuosi” perché vi faceva transitate gli stessi attori che spesso, assieme al personaggio, cambiavano anche la natura della relazione e dell’interazione tra di loro,e credo che questo possa dirsi a buon ragione di Guediguian e dei suoi tre interpreti principali, in grado di essere credibili nell’eros struggente di Marie Jo ed ugualmente teneri e divertenti come fratelli, per altro fisicamente e psicologicamente eterogenei : Angelene ,rossa di capelli e dal volto intenso e scavato, (la Ascaride, sempre più una versione meno aristocratica della Sabine Azema di Alain Resnais) che fa l’attrice a Parigi tra telefilm e Bertold Brecht, il battutista e infantile Joseph (Daroussin , il fascino impossibile di quella faccia un po’ così, tra l’impiegato di banca e un castoro ) che sfoggia la sua
giovane amante assai più saggia e sentimentalmente matura, Rohmer docet, del suo presunto mentore, e Armand, l’unico rimasto in quella piccola e quieta baia a gestire il ristorante di famiglia (perfetta la fisicità rocciosa e l’espressione laconica di Meynal).
Ognuno, chiaramente, ha le sue ferite, i sensi di colpa e i rimpianti a prescindere da quale sia stato il movimento ( restare, andare o tornare) ,ma tutto questo non ha il peso del dramma, non si ha mai la sensazione che i personaggi si piangano addosso o che quel luogo, oltretutto scenario involontario di una morte particolarmente traumatica, sia depositario di un senso di vecchio, di muffa, di morte …. scorre ancora il brivido della vita nella relazione che Angelene inzio con un giovane ed esaltato pescatore a lei devoto, con cui recitare inaspettatamente una poesia di Paul Claudel o fare l’amore avvolti nel buio della notte, per sentirsi ancora desiderabili in un romantico pudore ottocentesco; C’è il flirt di Berangere, l’amante di Joseph, con Yvann, il figlio dell’anziana coppia di vicini di casa, i teneri Martin e Suzanne ai quali viene riservata una fine intrisa di pietas e dolcezza, pur nella violenza dell’atto.
Pur non essendoci gli snodi di una trama articolata da svelare o, come si dice in gergo, da spoilerare, il modo in cui i soprassalti dell’esistenza colgono e talvolta spiazzano i personaggi è talmente sottile e tranquillo, frutto di una maturata consapevolezza e padronanza stilistica e narrativa dei propri mezzi, che si priverebbe la visione di un piacere raccontando cosa è successo e cosa succederà nello specifico, quasi un’insulto allo sguardo del regista, al suo voler accompagnarci dentro una determinata situazione, rifiutando lo shock o l’effetto, la rivelazione a sorpresa
E negli ultimi venti minuti, quando il racconto aprirà uno squarcio e una possibilità di contatto con la realtà al di fuori della protetta e circolare dimensione della baia, si avrà la misura di quanto ancora il movimento dei tre fratelli e dei loro amanti regolari, piccolissima comunità sotto l’egidia demodè dell’amore in contrapposizione a una comunità piccola e realisticamente più ostile come quella marsigliese, sia vitale, solidale, utopistico, in grado di rischiare e fare la cosa giusta.
Inoltre, tutto questo, è detto senza urlare, alzare la voce protestare : basta l’eco del proprio nome pronunciato, che riporta a un’identità, a una presenza, a una storia.
E tanti echi e tante storie insieme scuotono dal torpore della contemplazione di un tramonto e costringono a voltarsi ad accorgersi di quello che gira intorno.
Flashback iniziale: La scena del ricordo della gita in macchina e sul molo, con Angelene, Joseph e Armand, è un’immagine di repertorio appartenente a un gruppo di lavoro che collabora da tanti anni insieme oppure un eccellente lavoro di trucco e parrucco per ringiovanire gli attori e ridare i capelli a Daroussin e qualche ruga in meno ad Ariane? un dibattito che è nato con alcuni amici dopo aver visto il film.
Io personalmente sono convinto della prima ipotesi e non tanto per un fatto tecnico, quanto per la natura stessa del cinema di Guediguian che filma non per fissare o eternizzare un momento, ma
per rimetterlo dentro il flusso delle immagini e della vita.
Fabrizio, ho assistito alla prima al Nuovo Sacher, con dibattito finale con Guediguian e Ascaride e Nanni Moretti gli ha fatto proprio questa domanda, che tu e i tuoi amici vi siete posti. E’ come dici tu: è una scena di repertorio, girata circa 35 anni fa.
Ciao,
Chiara.
Grazie Chiara, ho vinto una scommessa 😉 la possibilità tecnica e “virtuale” di manipolare le immagini della memoria, ci porta a non considerare che alcuni autori come Guediguian sono ancora in grado di fare scelte poetiche e romantiche e di mettere in relazione il passato reale con il presente per poterlo aprire a un possibile futuro
… e io l’ho persa invece!
Comunque bellissimo pezzo, mi viene da dire che il cinema di Guediguian è sempre oltre i suoi film.