Una di quelle ville fredde a due passi da Roma, uno di quei rifugi di pendolari borghesi che poi vanno a lavorare a Roma. All’inizio non capisci bene di che film si possa trattare. Poi la casa è venduta a sorpresa e i due ragazzi che ci abitavano partono in cerca del padre. Perché il fabbricato con terra intorno è stato venduto a loro insaputa proprio da un genitore lontano, distratto, partito un giorno e mai tornato a spiegare come andò davvero, a concedere ai due figli almeno una parola, di spiegazione e affetto. Da tempo vive in Marocco e lì ha pensato bene di vendere la casa a un tale Franco Vitale, uno di quegli italiani all’estero che la commedia italiana di costume ci aveva un tempo descritto con gusto, realismo e precisione. Per la cronaca lo interpreta Paolo Sassanelli, caratterista italiano specializzato nel trovare ogni volta, e sempre con valida maestria, una sfumatura dialettale nuova. Stavolta si diverte con un leggero e saporito accento francese, e sempre per la cronaca il padre dei ragazzi lo incarna Emilio Bonucci, attore più che altro teatrale, professionista che si è messo a completa disposizione di questo giovane e interessante piccolo film italiano.
La trama è questa: due figli senza controllori partono per il Marocco a cercare di riprendersi la casa e di regolare il conto, magari, con un padre inadeguato, incosciente e odiato, forse. Due ragazzi di ventidue e trentatre anni, con i volti di Emanuele Bosi, esordiente concentrato, ed Adriano Giannini, bravissimo, in questo film diretto con decisione dall’altrettanto esordiente Claudio Giovannesi: qualche esperienza lavorativa a Blob, qualche documentario e qualche corto di valore. Welcome Bucarest, su tutti, il racconto documentario di una complicata integrazione tra un ragazzo rumeno sul lungomare di Ostia, la scuola, gli italiani, altri rumeni ed il presente multiculturale che qualche politico pensa ancora di poter affrontare negandone l’invincibilità storica, e nascondendo la realtà sotto il tappetino, per raccontare agli elettori che a casa nostra è tutto pulito. La chitarra sempre in mano, per Giovannesi, e non solo per un falò con gli amici, ma per i locali di un certo livello a suonare per il pubblico pagante. Ed è per questo che il suo nome figura anche nella voce “Musica” del film (insieme a quello di Enrico Melozzi).
E poi il diploma in regia al centro sperimentale di cinematografia, il luogo da cui nasce questo film, l’organismo da cui partì, nel lontano 2004, il progetto che oggi culmina in questo solido debutto, sospeso tra dramma e commedia, somigliante a molte cose ma ben attento a non imitarne nessuna. Da un po’ di tempo L’istituto Luce offre a un diplomato del Centro la possibilità di realizzare un vero e proprio film, producendone il saggio finale ed aiutandolo a incontrare la sala. Nel 2007 era toccato a Ma che ci faccio qui! di Francesco Amato, un simpatico road movie della maturità scolastica, tra litorali romani, amori estivi memorabili, motorini scassati e giovani attori meno fortunati di Nicholas Vaporidis e Carolina Crescentini. Di quel piccolo film parlò benino la critica e pure la sala non voltò le spalle a quella giovane pellicola umile. “E’ un modo per aiutare il giovane cinema italiano senza confinarlo nella gabbia delle commedie generazionali”, ha scritto Federica Lamberti Zanardi sul Venerdì di Repubblica, e chissà se ha ragione lei, ma stando alle parole di Caterina D’Amico, amministratore delegato di Rai Cinema (entrata anche lei nel progetto) la cosa è ancora più interessante. Con l’occasione offerta dal Luce, il Csc di cinematografia, la scuola nazionale di cinema, ha fatto lavorare ad un film vero tutta la sua tarda primavera scalpitante. Per La casa sulle nuvole si sono messi a far sul serio piccoli sceneggiatori in erba (Francesco Apice, Matteo Berdini, Filippo Gravino) e altrettanto giovani collaboratori, come il montatore Giuseppe Treppiccione. L’idea di fare qualcosa sul Marocco era venuta proprio a Giovannesi, all’inizio per un doc. sugli italiani che vivono là. «Ho scritto questo film dopo aver girato nel 2005 il documentario Appunti per un viaggio in Marocco, reportage sulla comunità italiana a Marrakech». Sono parole del regista, che aggiunge: «Lì ho scoperto che ci sono due tipologie di italiani: gli imprenditori in fuga, che sperano di fare in Marocco il colpaccio, e gli artisti». Poi la cosa ha preso un’altra piega, il documentario è diventato un film ma i sopralluoghi sul territorio sono rimasti, come puntelli su cui legare una sceneggiatura parlante e rispettosa del pubblico. Il lavoro di preparazione al film è stato lungo, gestito con cura e pazienza, del resto non è una caso che il regista preferito di Giovannesi sia proprio Matteo Garrone, uno che con la realtà, due conti con calma se li fa sempre prima di mettersi a riprendere.
La casa sulle nuvole è un viaggio in una terra lontana e vicina, in una cultura in movimento che il giovane regista riesce a documentare senza fermarsi sulle ansie e le speranze (disilluse o meno) di una generazione italiana che si accorse (in tempo) dell’impossibilità che il nostro paese offriva alle proprie aspirazioni. Il film osserva anche un altro paese, con pudore e sguardo sicuro, senza pretendere di offrire spiegazioni o analisi definitive. Poi concede spazio all’eterno ed ultraletterario rapporto tra padri e figli, ancorato, in questo caso, ad una tipologia paterna assente ed invisibile. “Il mio film è ambientato in questo contesto, ma racconta il percorso interiore di due fratelli alla ricerca del padre e anche di una relazione profonda fra loro», continua Giovannesi, spiegando anche la particolarità di questo conflitto: «Noi trentenni dobbiamo fare i conti con padri poco cresciuti, poco autorevoli e per niente autoritari. Però in fondo molto simpatici. Ho tanti amici di cinquant’anni e hanno vissuto di più, hanno amato di più e si sono anche drogati di più». Il riferimento è a quelle figure anni ’70 che hanno scelto di non omologarsi alle convenzioni sociali e ne hanno pagato, a modo loro, il prezzo.
E’ su questo schema, infatti, che Claudio Giovannesi ha costruito il personaggio di Dario (Emilio Bonucci), che ha abbandonato da quindici anni i suoi due figli, Michele e Lorenzo, per andare nella comunità di artisti di Marrakech. Lo trovano là, perso nelle sue fragilità, nelle sue convinzioni incallite, e nei suoi fallimenti da antieroe della commedia all’italiana. Ma lì capiscono anche l’inutilità di un giudizio morale e scelgono di perdonare, cogliendo, col loro viaggio formativo, l’occasione di incontrare loro stessi, neanche loro, da buoni esseri umani, liberi dal peccato e dalla debolezza. Il road movie serve a loro per diventare uomini più forti e a noi, spettatori incuriositi dall’ equilibrio del film, per rifarci gli occhi con un paesaggio insolito e ben descritto dalla fotografia. Insomma, una storia tutto sommato leggera che, lontana da eccessive ambizioni, offre un prodotto degno di essere guardato.