di Fabrizio Croce/Che anomalia andare a vedere la versione, restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Cineteca Nazionale, di Deserto rosso, un film al quale si fa fatica ad accostare il termine “restauro”, che fa pensare a qualcosa di vecchio e appartenente al passato da dover lustrare e far brillare in una nuova veste. Da questo punto di vista la parola “restauro” diventa accettabile – seppur in relazione a quello che è stato, è e rimarrà uno dei film più sorprendenti e radicali in senso estetico, narrattivo e filosofico – esclusivamente nella sua accezione letterale di recupero e ripulitura della pellicola originale, la materia di cui il cinema era fatto nell’anno 1964. Michelangelo Antonioni presentò allora il suo sguardo distaccatamente allucinato e laconicamente aderente sull’individuo calato nello specifico contesto culturale e sociale dell’Italia assorbita dalla proliferazione industriale e in progressivo abbandono e degrado del paesaggio naturale e contadino, ma affondando la spirale nelle insondabili lande della psiche e dell’animo umani, con un riposizionamento dell’assetto percettivo su un paesaggio mentale dall’orizzonte sconfinato, struggente eppure insostenibile: un ripiegamento verso l’interno che presto avrebbe spazzato via ogni utopia di comunità e condivisione.
E questo accadeva prima che fosse scoppiata ogni utopia e ogni rivoluzione del ’68 e prima che l’interazione con la tecnologia, con la parte meccanica e robotica della nostra civiltà, diventasse deriva del presente e del futuro e si offrisse di ammortizzare e anestetizzare qualsivoglia forma di inquietudine, angoscia o dubbio.
Provoca emozione rivedere Adriana/Monica Vitti, la donna oggi persa nei meandri di chissà quale malattia neurologica degenerativa, che declama confusa e smarrita un dolore così radicato da cominciare dalla punta dei capelli come la tenerezza spiazzante della volontà di amare e di sentirsi amata da tutto e da tutti, avvertendo il senso di disintegrazione di se stessa e invocando un laico panteismo di Eros, un afflato di sentimento dentro cui poter essere presente e intera.
Ancor più che allora – quando era troppo presto per comprenderla e troppo facile la tentazione, nell’Italia dell’esplosione economica e della rimozione in funzione della gaudenza e della superficiale levigatezza, di ridicolizzarla e ghettizarla come fenomeno di un esistenzialismo salottiero e pretenzioso – nel nostro presente Adriana indica la voragine di quella profonda cicatrice interiore, come l’hanno chiamata Nico e Philippe Garrell, già menzionati su queste pagine, al loro primo incontro cinematografico: lo scollamento, la frattura, la separazione da una realtà che si presenta come un insieme di simboli da decifrare e codificare, non tanto diversamente dai dati immessi dentro un computer affinché possa comprendere, elaborare, agire.
Mentre osservavo Adriana/Monica divincolarsi avviluppata in quella sublime capigliatura rossa esposta come un’antenna per captare un segnale di vita sulla terra e forse nell’Universo, me la sono immaginata, restituita allo splendore e alla nitidezza dei colori originali concepiti dall’immaginario di Michelangelo e dalla sua estensione estetica nella fotografia di Carlo Di Palma, intrappolata nella monade della realtà virtuale di un social network qualunque, sulle nuove apparecchiature elettroniche. Ancora più persa, sola, smarrita a battere i pugni contro il black mirror di un isolamento di cui solo lei e i suoi sofferenti capelli ramati hanno intuito la portata tragica.
Il mondo, almeno cinematograficamente parlando, non ci è più apparso come attraverso i suoi occhi, che è come se girassero a 360° e ammantassero tutto delle tracce di rosso della sua nevrosi spirituale ed emotiva. E quel mondo così percepito è, nel paradosso di un’alterazione e di una forzatura, generatore di immagini di rara bellezza, come quelle gigantesche petroliere che entrano dentro le rettangolari finestre delle case dal design bianco e geometrico o che sembra passino tra gli alberi mettendo in contatto, con il movimento, la dimensione instabile e liquida del mare e l’ineluttabile staticità della terra ferma, le polarità tra cui la stessa Adriana oscilla:
“Non si ferma mai, è sempre in movimento… Non posso guardare troppo il mare , non ce la faccio, altrimenti tutto quello che sta a terra mi annoia”.
E poi quelle aperture acustiche sui suoni dell’elettronica contaminati con i rumori della fabbrica, e ancora con i suoni della natura nella caledoiscopica colonna sonora di Giovanni Fusco – che dopo questa collaborazione, l’ottava, non potrà andare oltre nella sperimentazione all’interno del mondo di Antonioni. L’impressione che produce una tale ricchezza di suggestioni e impulsi accompagna nell’abisso, un livello continuamente più profondo e desolato, con rimandi all’orizzontalità di una linea narrativa lungo cui Adriana cammina e agisce, senza una destinazione o uno scopo precisi, in un mosaico di falsi movimenti.
Nel making of di un esaurimento nervoso e nel tentativo esile eppure caparbio di restare in contatto con la propria naturalezza istintiva (il panino gia “morso” che Adriana compra da un dipendente della fabbrica del marito e addenta per sentirne il sapore e la consistenza), Antonioni ci ha fatto vedere qualcosa che poi avremmo coperto e nascosto sotto una multiplicità di narrazioni autoreferenziali e rassicuranti e di immagini così lontane dalla visionarietà rivelatrice e così vicine alla medietà che appiatisce e addomestica lo sguardo e lo spirito.
Lontano, c’è quel sogno in technicolor di una ragazzina che nuota solitaria tra le calle di una spiaggia rosa e che ascolta il suono ancestrale di una voce, cercando di capirne l’origine e la direzione.
Una fiaba che Adriana racconta al figlio il quale le chiede a chi appartiene quella voce: A tutti.
Come un deserto rosso, una spiaggia rosa o la superficie di uno schermo popolati dalla necesittà di un contatto totalizzante, di un abbraccio universale.
Bellissimo pezzo. Le considerazione sulla nevrosi, sull’eros, sullo scollamento, l’ipotesi,
annunciata da una visione poetica sulla facoltà di ‘captare’, di cosa accadrebbe ad Adriana nell’epoca del Rumore bianco…
ma no, in effetti quest’ultima forma di alienazione, che si manifestava con toni di rarefazione, è stata superata dalla dinamica iper-reattiva dei social media…