di Armando Andria /Per una volta cominciamo dalla musica. Certo, meriterebbe una recensione a sé la colonna sonora realizzata da Scott Walker per L’infanzia di un capo, ma su questo cediamo il passo a chi ne sa di più, e sperimentiamoci almeno nell’impostare queste brevi note attorno al film proprio sulla falsariga della composizione del 74enne musicista dell’Ohio.
L’“Ouverture” (segnalata così proprio dal primo cartello sul nero) della partitura di Walker accompagna un montaggio iniziale di filmati d’epoca che mostrano l’Europa che attraversa l’abisso della Prima guerra mondiale: brevi drammatiche immagini dalle trincee, poi i villaggi distrutti dai bombardamenti, bambini intirizziti che camminano nelle macerie, fino alle parate e ai politici che salutano le folle a conflitto concluso. I titoli di testa (di mirabile essenzialità grafica) intervengono quando già le prime note di Walker, tonitruanti, incalzanti, allarmanti come sirene antiaeree, ci hanno allertato e inquietato abbastanza: quello che abbiamo visto non è semplicemente il passato.
Varrà a questo punto contestualizzare questo L’infanzia di un capo, esordio alla regia dell’attore Brady Corbet e libero adattamento dell’omonimo racconto di Jean-Paul Sartre che chiudeva la raccolta Il muro (1939). Siamo, appunto, all’indomani della Grande guerra, in Francia. Prescott, dieci anni, è figlio di una francese austera e religiosa e di un diplomatico americano quasi sempre assente perché impegnato nelle trattative di quello che sarà il trattato di Versailles. Spesso solo, in una grande villa vicino a Parigi, il bambino trascorre un’infanzia intellettualmente precoce ma internamente rabbiosa: vive all’ombra di un mondo maschile – quello di suo padre e dei suoi colleghi – gretto e vigliacco e di un universo femminile (incarnato, oltre che dalla madre, da una governante e da una giovane insegnante di francese) amorevole ma debole. In un’atmosfera strisciante di ipocrisie e tensioni represse, si determina la formazione di Prescott, e il suo destino di capo.
La regia raffredda la materia del racconto, prediligendo dialoghi sussurrati e adottando un’andatura compassata nel percorrere gli ampi corridoi e saloni della villa di campagna. La messa in scena è tenebrosa, tutta chiusa in interni ottimamente ricostruiti e fiocamente illuminati, ripresi da un mirabile 35mm, per i quali si è evocato il Kubrick di Barry Lyndon. A tratti, il piglio è gelido.
Rispetto a questo, l’attitudine del “racconto sonoro” di Walker si pone in deciso contrasto. La sua partitura, dalle note spesso dissonanti, percorsa da improvvise raffiche stridenti proprio quando il lirismo parrebbe prendere il sopravvento, costruisce livelli di tensione quasi insostenibili laddove le immagini apparentemente non ne suggeriscono affatto: si vedano le scene in cui Prescott gironzola da solo nella grande casa, o quella in cui insieme a sua madre s’incammina verso la messa. Walker destabilizza il visibile, aggredendone la superficie ghiacciata.
Questa e altre scelte, che caratterizzano in maniera singolare L’infanzia di un capo, evidenziano nel 28enne Corbet (visto sullo schermo in Sils Maria, Melancholia, Mysterious Skin e nel remake di Funny Games, tra gli altri), un’identità autoriale sorprendente. Sostenuto in scrittura dalla compagna Mona Fastvold, oltre che da un cast eccellente e da un comparto tecnico di alto livello, il suo film non appare mai sulla difensiva al cospetto di un soggetto dalle implicazioni ingombranti. La fonte letteraria intimorente è ridotta a poco più che un’ispirazione (in Sartre, dove non c’era il “fulcro” della Prima guerra mondiale, il ragazzino era figlio di un industriale e dopo innumerevoli sperimentazioni finiva per diventare, in età adulta, un violento antisemita). Il lavoro di Corbet si propone, con risoluta personalità concettuale, una missione teorica precisa: mostrare un caso di educazione individuale quale metonimia della parabola storica e politica del Novecento europeo.
Il finale sorprendente, sconvolgente, di cui qui non si dirà per ovvie ragioni, rappresenta l’esplosione di ogni tensione accumulata, il coagulo di tutti gli “scatti d’ira” di Prescott: una vertigine, nella storia e nella Storia, a cui anche la camera si abbandona fin quasi a perderne i sensi. E qui Walker dilaga senza freni, assediando le nostre orecchie con suoni ancora più taglienti, distorti. Il passato annunciato nella Ouverture si è compiuto.
Presentato nel 2015 a Venezia, dove vinse il premio per la miglior opera prima e quello per la miglior regia della sezione Orizzonti, il film è in sala due anni dopo, meritoriamente distribuito da Fil Rouge Media nella versione originale con sottotitoli.