di Fabrizio Funtò/ Ci sono cose che non si usa dire nelle recensioni cinematografiche. Quindi noi le diremo.
Al termine della visione di Cuori Puri, sorge immediatamente la prima domanda: perché un film del genere? Quale necessità spinge regista e produttore a organizzare tutto l’ambaradan produttivo e distributivo, se l’esile storia che costituisce il plot del film sta tutta in nanche due righe di scrittura?
Qual è la “necessità interiore” di questa pellicola, che pure colpisce, e colpisce duro?
Già, perché un film deve essere in qualche modo “necessario”. Altrimenti è meglio non farlo. Deve avere una sua giustificazione interiore, da qualche parte. Ne deve valere cioè la pena. In altri termini, un film è anche un destino, per intenderci. Quel è il destino di Cuori Puri?
Il film è quasi un documentario ― anche se la storia, per quel poco che c’è, fila via liscia dalla prima all’ultima scena. Presa diretta, attori che sembrano interpretare se stessi nella vita reale (beninteso, bravissimi: il che significa che il regista ha avuto un polso di ferro).
Chi sono i “cuori puri”? Quelli che fanno voto di castità e intendono arrivare illibati al matrimonio. Perché? Nessun perché: l’amore materiale (e materialista) è il grande male secondo la religione cattolica; è la reificazione umana, uomini e donne usati come oggetti del proprio privato piacere, e quindi intercambiabili, senza valore. L’amore “sacrificale” (sacrum-facere) è quello che rende invece degno dell’amore l’essere umano. Ma perché…?
Il panorama è una delle periferie degradate di Roma. I ragazzi protagonisti sono dei ragazzi qualunque. La vita che conducono è quella che ci si aspetta di conseguenza, con tutte le asperità del caso.
Dunque un film neo-realista, che recupera il filone postbellico dei tanti ladri, e delle poche e contese biciclette?
Non proprio. Perché il mondo nel frattempo si è capovolto nel giro di un paio di generazioni, e le speranze del dopoguerra, e soprattutto l’ethos di un popolo che voleva rinascere, la “brava gente italica” che era in ciascuno di noi e perfino nel mariuolo, qui non ci son più: e queste riprese ne costituiscono appunto un documento lancinante e dissacrante. Cupo.
Qui, ora, c’è l’inferno di una periferia romana che non ha nulla da invidiare ad una banlieu nordeuropea. O di un sobborgo di Baires.
No, il gioco del regista è più sottile, starei per dire: più subdolo.
Cuori Puri mostra la violenza, dappertutto. Esplicita o molto più spesso “compressa”,sempre sul punto di esplodere. Metà del film è “acqua santa”, la parrocchia, don Luca, la madre di Agnese (la protagonista interpretata da una convincente Selene Caramazza), le sue amiche, il volontariato, gli zingari da aiutare, le mille storie ed i mille significati che la religione ripropone, per tentare di portare una luce purchessia ― finanche palesemente posticcia ― in un inferno quotidiano.
Dall’altra il diavolo della vita a cui sono ridotti i ragazzi di oggi: furti, spaccio, e spietato malaffare. L’altra metà è l’acqua in cui nuota Stefano (Simone Liberati), l’altro protagonista, che sembra esserne appena uscito grazie alla solita cooperativa di ex-detenuti, che gli assegna lavori illusori. Lavori che Agnese gli fa inevitabilmente ed involontariamente perdere, per un motivo o per l’altro, bruciandogli le illusioni minimali e riportandolo di nuovo al suo stato di sottoproletario disoccupato. Quindi obbligato a delinquere per sopravvivere. Agnese è la salvezza e la maledizione di Stefano. E’ l’ingenuità, la purezza, e la sua perdizione, la sua debolezza.
Sembra la lotta del bene contro il male, il pendolo di Foucault, ma in realtà la violenza che si respira nel film pervade ogni ambiente. E la chiesa ― a ben vedere ― non ne è immune: al contrario. Perfino la madre apprensiva e bigotta (Barbora Bobulova), tutta infervorata per Gesù, appena può si scatena: basta un nonnulla e la sua violenza esplode e dilaga nei confronti della figlia.
Perché la vita reale è schizofrenica. Ed in realtà, quando alla fine ti spogli di tutte le tue menzogne, di tutte le tue ipocrisie, delle favole e delle falsità a cui hai dato volutamente retta ― quando esci dal parcheggio dove ti sei rintanato per qualche momento, con la speranza di avere una pausa: ebbene ripiombi inevitabilmente nel baratro delle periferie desolate d’Europa e del pianeta. Ripiombi nella tua esistenza ― che vita non è di certo. Ma non hai altro. Non conosci altro. Questa è la disperazione.
Solo che nel finale il regista De Paolis imbastisce una preziosa e sottilissima allegoria. Che forse vale l’intera pellicola. Come una moderna Eva, Agnese “conosce” finalmente Adamo, stacca lei la mela dall’albero della conoscenza. È lei che infrange la favola cristiana, quella dell’illibatezza, della purezza, della castità ― ricadendo così però, e del tutto paradossalmente, nella metafora biblica.
Per lei il Paradiso è perduto una volta e per sempre. Ma in realtà lei non era mai entrata nell’Eden, se non attraverso i fumi illusori della religione. Lo sapeva, ma non se lo diceva. Infranto il muro del peccato, comincia la vita reale.
Forse gli italiani ― forse perfino gli zingari e i Rom ― non sono poi così cattivi; forse in fondo non hanno un’indole malvagia. Forse. Ma è il modo (ed il mondo) in cui vivono che non gli consente di vivere diversamente. Quindi anche loro sono espulsi dal paradiso.
A Ground Zero non aspettarti pietà.