di Francesco Abbate/ Questo film documentario del 1971 produce un urto che non può essere ignorato e che non può rimanere silente, esige un’articolazione, una messa in parola, tanto più quanto al centro dell’opera vi stanno persone sordocieche. I piani di lettura sono molteplici e i significati si offrono in una policromia che irretisce oltre a produrre un singolare cortocircuito con il titolo stesso del film. Il paese del silenzio e dell’oscurità è un film sull’esistenza, sulla sofferenza, sui sensi molteplici e ad un tempo sul senso ultimo della vita umana, sul significato dello stare al mondo, sulla solitudine e in definitiva sulla vita, sulla sua capacità poetica ovvero sul suo impeto creatore.
Quello di Herzog è un tentativo che ritorna spesso, penso per esempio a Kaspar Hauser, scoprire l’arcano dell’uomo, il più proprio ed essenziale di ognuno di noi a partire da un’origine, da un momento iniziale dal quale dovrebbe darsi il pieno sviluppo delle facoltà umane e che tuttavia non si dà, spezzato dalla contingenza degli avvenimenti. Eppure in questo film documentario Herzog va oltre, si spinge fino all’indecidibile, a una “soglia di indiscernibilità” per dirla con Agamben, a un luogo in cui risulta difficile se non impossibile trovare e dare senso. E’ indecidibile la nuda corporeità di un ragazzo di 22 anni, sordocieco dalla nascita, la sua gettatezza in un mondo che non sembra averlo reclamato e a cui non sembra mai essersi appellato, il suo aver da essere già da sempre spezzato. E’ indecidibile e tuttavia quel corpo solo, privato delle possibilità più immediate, trova nell’incontro con l’altro la propria redenzione, una redenzione del tutto temporanea, del tutto caduca, del tutto umana eppure salvifica. Nell’incontro con l’altro si produce una realtà altra, del tutto autonoma, inespropriabile e insostituibile, una transindividualità onnipervasiva. E così tutta la serie degli incontri che vengono narrati non abbisognano di nulla se non della risposta dell’altro, risposta che è in grado di colmare una distanza che apparterrebbe altrimenti al senza misura “se non mi tocchi la mano siamo distanti migliaia di miglia”. La dimensione che si produce taglia i ponti con qualsiasi discorso sull’essenza, con quella stessa ricerca dell’originario da cui si era partiti, questi incontri infatti non presuppongano nulla, semplicemente si danno, accadono in un superamento dell’ontologico nell’ operativo e ancora meglio forse nel performativo. Delle nuove soggettività vengono ad essere in una deposizione temporanea dell’io che adesso significa “eccomi”, per usare una bella espressione di Levinas.
Ma questo film offre anche un certo sguardo sulla cultura, sul linguaggio, sulla storia, sul loro valore tutto umano, sul loro essere per l’uomo e non dell’uomo. A una povertà culturale corrisponde nei protagonisti una povertà di mondo, chi non ha ricevuto un’educazione adeguata (attraverso il metodo Lormen ad esempio) gode di una ridottissima capacità relazionale. In questo modo, seconda e prima natura risultano intrecciate irrimediabilmente, non è la cultura a stare a servizio dell’ uomo ma natura e cultura stanno insieme in un unicum inseparabile. L’educazione che ricevono i due bambini sordociechi dalla nascita letteralmente li mette al mondo, gli permette di avere un’altra esistenza e lo fa rendendoli soggetti di un dono che non sembra esigere nulla da loro e che vogliono accogliere con ogni forza, un dono in nulla secondo a quello che li ha generati. Il linguaggio non è più mezzo per un fine ma mezzo puro, la dimensione autentica entro cui è possibile un incontro che possiamo ormai chiamare ethos, dimora e rifugio per l’individuo, luogo entro cui dei significati sono possibili, in cui è di nuovo possibile decidere, dare senso, luogo ontologico per eccellenza ma proprio in quanto linguaggio, in quanto parlante, aperto al proprio fondo, mancante di archè, an-archico. E’ forse per questo motivo che il film finisce con un elemento di forte fusionalità con la natura, un uomo sordocieco rimasto per anni ai margini della società tanto da aver vissuto in una stalla abbraccia un albero, vorrebbe forse diventare un tutt’uno con esso e allora ripiombare nuovamente nel senza differenza, nell’irrelato ove qualsiasi discorso, e a maggior ragione un discorso sulla cultura, tornerebbe ad essere impossibile.
Per ultimo credo che il film, in quanto dotato di un respiro che supera ampiamente la particolare condizione che racconta, offra un’importante riflessione politica: a una fondazione della politica come risposta alla guerra dell’uomo sull’altro uomo corrisponde una dimensione etica come eccedenza da quella, la quale, in perenne stato costituente, si fonda sull’uomo per l’altro uomo. Riuscire ad accogliere in tale spazio l’intera comunità degli individui rimane forse il compito inesauribile a cui siamo irrevocabilmente chiamati.