Quando si vanno a toccare alcune situazioni della Storia ancora scoperte, vive e per questo grondanti di dolore, vergogna e rimorso, probabilmente si potrebbe mantenere da una parte un atteggiamento di pudore, di contemplazione accorata ma lucida di fronte a ciò che gli uomini, a contatto con la perversione del potere, sono stati in grado di compiere nei confronti di altri uomini, incapaci di rispondere alla violenza e alla sopraffazione. Dall’altra bisognerebbe osare spingendosi oltre la soglia della testimonianza indignata della Storia, contaminandola con le passioni e le pulsioni individuali delle storie di individui che a volte, per caso più che per volontà, si trovano catapultati dentro avvenimenti più grandi di loro, costretti a fare un percorso di conoscenza che passa prima attraverso il cuore e solo successivamente per la riflessione e l’elaborazione.
Stefano Incerti non è mai stato un autore che si è tirato indietro di fronte alla fascinazione (ma anche ai pericoli) del melodramma noir a tinte fosche fin dal folgorante esordio, Il verificatore, dove faceva esplodere inquietanti squarci noir dentro una storia di quotidiano squallore e solitudine. Alzando la mira e puntando alla situazione dell’Argentina vessata dalla dittatura militare di Videla, stritolata tra una fasulla immagine di benessere che vuole restituire al mondo il clima austero e intimidatorio che invece si respirava per le strade della Buenos Aires degli anni settanta, stavolta Incerti apre Complici del silenzio con due personaggi da commedia all’Italiana: Maurizio e Ugo, l’uno giornalista sportivo, l’altro fotoreporter in trasferta per i famosi mondiali del ’78 (quelli che vinse l’Argentina, appunto), portatori di quell’italianità buffonesca, un po’ cialtrona e disimpegnata che verrà poi corretta in corsa dal susseguirsi sempre più drammatico e minaccioso degli eventi. Se l’elemento dell’italianità cialtronesca è perfettamente riconoscibile nell’Ugo di Giuseppe Battiston, grande e grosso caratterista capace di sottili sfumature come di coloriture macchiettistiche, il lavoro di Incerti su stile e racconto trova un perfetto corrispettivo nel corpo, nel volto e nella potenzialità attoriale di Alessio Boni che interpeta Maurizio, esplorando una vasta gamma di emozioni. Dall’iniziale voglia di “cazzeggiamento” dell’Italiano all’estero, passando per la capacità di sedurre e di farsi sedurre dalla femminilità tosta di una resistente al regime (interpretata come una fiamma bruna dall’inedita Florencia Raggi) e lo sgomento nel passaggio dalla passione amorosa all’inevitabile faccia a faccia con la brutalità delle autorità militari, per arrivare al gesto di ribellione e di orgoglio che richiama sempre alla memoria il finale di Vittorio Gassman catturato dagli austriaci in La grande guerra.
Insomma un compendio di tutto ciò che il maschio italiano è in grado di essere in una situazione di pericolo, allo stesso modo si muove la mdp di Incerti, anche del ridicolo involontario, come nella scena della seduzione tra Maurizio e Ana all’interno della tanguera, dove tira più un’aria da telenovela sudamericana che da ineluttabilità del destino. Ma questo essere cosi aperto, vitale, carico di colori e di situazioni emotivamente impegnative – con una scelta precisa di rinunciare alle motivazioni psicologiche per affidarsi all’inverosimiglianza della percezione dei sentimenti e delle passioni – in certi punti scuote, mette a disagio, fa sentire realmente complici di un silenzio e porta all’esasperazione, alla necessità di urlare. Riuscita, toccante, seppure delineata con rasoiate secche, è la figura dello zio italiano di Maurizio trapiantato in Argentina, a cui l’attore Jorge Marrale restituisce la rabbia, l’indignazione e la disperazione di un padre che, dopo essersi faticosamente ricostruito un’identità culturale e sociale in un paese diverso, vede il proprio figlio minore, studente con l’inclinazione per la poesia e la musica, arrestato e fatto sparire da quello stesso governo che pur, subdolamente, gli si presenta sotto forma familiare nella figura del marito della figlia: un potente, ambiguo avvocato colluso con l’esercito e i politici.
Quando per un momento si ferma il pedale dell’acceleratore della corsa di Maurizio e Ana, che si amano, si inseguono, e vengono catturati e torturati senza soluzione di continuità e senza mai perdere la loro avvenenza né la tensione sessuale, la narrazione è spinta fino al punto estremo: viene offerta la possibilità di guardare all’interno del sopruso non solo con lo sguardo di quel padre che prima ancora di una giustizia ideologica vuole il corpo, la prova tangibile dell’esistenza di suo figlio, ma anche con l’appello accorato prima e silenzioso poi delle madri dei desaparecidos che scendono in piazza con il capo coperto e le foto dei loro figli a testimoniare il lutto e la vergogna.
Non c’è qui la secchezza, la lucida concisione, la dialettica tra la rappresentabilità della minaccia e della tensione e la necessità di non varcare la soglia dell’immagine di una violenza insostenibile come avveniva in Garage Olimpo di Marco Bechis e paradossalmente le scene di tortura nelle prigioni sono quelle meno incisive, che sottolineano l’artificiosità e l’inverosimiglianza del racconto. Probabilmente perché i militari carcerieri erano più degli indolenti burocrati di un orrore quotidiano che dei sadici aguzzini capaci di costringere Maurizio ad assistere alla ripetuta sodomia ai danni della sua Ana. In quest’ottica c’è una coerenza nell’immagine conclusiva di Garage Olimpo, un aereo spalancato sull’Oceano Atlantico dal quale 30.000 persone senza volto e senza storia sono state scaraventate e sepolte, così come è coerente con l’andamento del racconto quel finale davanti al muro che, a Buenos Aires, ricorda i nomi di quei 30.000, perché uno di quei nomi è diventato carne, sangue, passione,una metafora della natura materiale del racconto cinematografico che si rigenera nella continuità dell’abbraccio tra un padre e una figlia separati dalla Storia.
Parlavamo poco fa di questo film dopo aver visto
un altro film.
Ottima recensione, del resto questa competenza l’avevo
intuita. Coraggio, occorre resistere a chi vuole
mettere in un angolo, in castigo, i distributori di
cultura via Web.
Scardiniamo questi lucchetti che bloccano
il circuito immobile ed autoreferenziale dei salotti.