[***] Secondo Francesca Archibugi l’amicizia è un sentimento decisamente sottovalutato. Realizzando un film sull’amicizia si corrono molti più rischi che a farne uno sull’amore: occorre talento e caparbietà per trovare una strada, un pubblico, uno sguardo originale, qualcosa che lasci sporgere la testa fuori dal mucchio nel quale hai seppellito la vetrina, la pelle del tuo film – e cioè un titolo azzeccato quanto banale e una locandina che pare fare il verso ai sempiterni Vanzina. È vero, il titolo si ricava dal romanzo di Umberto Contarello da cui è tratto, la locandina la impone qualcuno che la sa lunga sull’italiano medio e lo foraggia a pane, smorfie e commedia a grana grossa – perché se la gente “sgama” che non siamo in zona Italians o giù di lì rischiamo le sale deserte…  Ma dentro il film è un’altra cosa. Si ritaglia un sentiero proprio, e ci racconta qualcosa dell’amicizia che è vecchio quanto il cucco ma che sembra quasi nuovo. Qualcosa che ha a che vedere tematicamente col concetto di fiducia, e tecnicamente con un soggetto sì minimalista, ma che finalmente dispone del propellente necessario a uscire dalle “due camere e cucina” in cui il cinema italiano va a rifugiarsi quando non “denuncia” e non va in vacanze di Natale.

Lo sceneggiatore Alberto (Albanese) e il giovane carrozziere Angelo (Stuart) si conoscono al Pronto Soccorso, vittime entrambi di infarto. Quello di Alberto è più leggero, ma è impastato a un’infelicità diffusa da intellettuale chiassoso e inaffidabile, abituato a costruire storie senza viverle; per Angelo è una cosa seria invece, e somiglia terribilmente a quello che si portò via suo padre alla sua stessa età. Il ragazzotto è un tipo pragmatico, ha una famiglia a casa con due figli e un altro in arrivo, ha consolidato per loro un’esistenza serena e non ha le sovrastrutture intellettuali occorrenti a far cantare grilli nella testa. E allora, per garantire un futuro stabile ai suoi, ordisce un piano terra terra che ha il fascino di una favola da borgata: introduce il nuovo amico Alberto – con cui ha imparato a ridere e di cui ha capito di potersi fidare – in famiglia, gli ricava man mano più spazi, gli affida i suoi affetti, gli cuce intorno la famiglia che Alberto non ha mai avuto e che in fondo in fondo desidera, affinché prenda il suo posto quando una nuova scossa al cuore se lo porterà via. “Tu sei l’unico che si fida di me”, sottolinea sconcertato Alberto, e Angelo annuisce. Perché un’amicizia che nasce a un passo dalla morte – per entrambi – è l’amicizia più complice che si possa immaginare e spinge a riflettere su quello che abbiamo combinato in passato e sulle priorità del futuro.

La fiducia è una moneta preziosa, ma non è una moneta di scambio: ne puoi ricavare solo altra fiducia, o vederla tradita. Diegeticamente parlando, Alberto non tradisce. Abituato a far ronzare la testa, comprenderà in fretta il piano di Angelo, e arriverà a garantirgli anche qualcosa in più, ma un qualcosa di diverso e meno infantile di quanto l’ingenuo compagno d’ospedale aveva prospettato. Extra–diegeticamente, non tradisce nessuno. Attori eccellenti che ripagano la fiducia della regista, in una commedia agrodolce che riesce – e poteva riuscire – esclusivamente in presenza di una prova d’attore maiuscola da parte dei due protagonisti, delle donne e dei ragazzini attorno a loro.

Questione di cuore è un film che funziona anche depositando gran parte del suo peso sull’ambientazione di una Roma che recupera il proprio passato cinematografico, per mostrare cosa è diventata oggi quella fetta di città dove il cinema nostrano partorì i suoi capolavori dell’immediato dopoguerra. Il Pigneto – location doc pasoliniana – e il simbolico “Bar Necci”, recentemente dato alle fiamme da ignoti; la Circonvallazione Casilina e la Tangenziale Est; il Mandrione e Torpignattara. Qualche volta la puzza di periferia è rimasta quella, altre si è mescolata all’odore dei kebab e dei cocktail alla moda, nelle nuove isole trendy della movida romana. E tutto è fotografato splendidamente, qualcosa del passato in bianco e nero è sopravvissuto nei colori accesi di quello spicchio fra Prenestina e Casilina. Come conferma Francesca Archibugi, il sostrato politico del film sale a galla con le parole di Alberto, col suo “spaesamento” nella realtà che lo circonda: una realtà che permette al buon Angelo di costruire la sua piccola fortuna da carrozziere lavorando duro sulle auto d’epoca – e quindi sul passato… – ed evadendo il fisco, ad Alberto di campare in pieno centro storico della capitale sborsando tremila euro d’affitto, al cardiologo che lo ha in cura di concedersi vacanze cafone alle Maldive con la “seconda moglie-gnocca”, e al senegalese che dà una mano in carrozzeria di dormire in uno sgabuzzino al lato dell’officina.

Un’Italia con tanti luoghi comuni, quindi, facili topoi sul mestiere di scrittore come investigatore del quotidiano (chiediti che ci fa un abruzzese zoppo qui – dice Alberto al figlio di Angelo: la risposta è la storia…), discorsetti su una Roma amata proprio perché odiata, qualche “paturnia” esistenziale di troppo e, a voler essere cattivi, l’assenza di un vero e proprio climax narrativo. Eppure non vengono alla mente scene sacrificabili, ritocchi necessari, soprattutto un finale aperto (eppure chiusissimo…) migliore di quello architettato dall’autrice. Che come insegnava Truffaut, conduce lo spettatore alla conclusione desiderata, ma solo attraverso strade impreviste.

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