di Chiara Lenzi / Fuoco, pioggia, fango, terra. Gli elementi essenziali della vita. Luci e ombra. Un uomo e il suo dolore e il male che lo divora dall’interno. È possibile che il male non lasci traccia? Entri divori gli organi e se ne vada? E cosa succederebbe se lo si potesse vedere in faccia, dargli un volto e pensare di poterlo annientare?

 

Gianclaudio Cappai, regista al primo lungometraggio, (si era già fatto conoscere con il mediometraggio So che c’è un uomo, in concorso a Venezia nel 2009), con Senza lasciare traccia ci conduce con immagini materiche sulle tracce del male che divora Bruno (un ipnotico, intenso, bravissimo Michele Riondino).

La malattia di Bruno è reale, e forse sconfitta dalla medicina, ma è anche metafora di un malessere molto più grande profondo (forse la vera causa del suo Male).

Con un filo d’immagini avvolgenti Cappai ci conduce pian piano nel vortice di Bruno, in un ispirato thriller psicologico.

Fuoco, sole, sudore, mattoni asciugati al sole girati da due ragazzini come fosse un gioco, una corsa sensuale e giocosa nel verde… estate… fuoco… una benda sugli occhi, i gioco di moscacieca?

Con gli occhi bendati le sensazioni del corpo si fanno più forti: il dolore e il piacere si acuiscono. Non vedere spaventa, disorienta.

Grazie alla spiazzante musica di Teo Teardo l’inquietudine cresce: qualcosa non è come appare?

Bruno divorato dal delirio di sopravvivenza vede il mondo attraverso la lente della sua sofferenza, del trauma che lo segna da tanti anni. La macchina da presa stretta sui personaggi, li tiene sotto assedio, come il dolore assedia Bruno. Spia i personaggi con voyeristico pudore. Un teleobiettivo che rimane lontano dai protagonisti fa entrare lo spettatore nello spazio di Bruno, claustrofobico, chiuso, soffocante.

Viaggio verso la vendetta catartica, che diventa mezzo per salvarsi, lavarsi dal dolore vissuto, dal trauma che ha segnato Bruno a vita nel corpo e nell’anima come un marchio a fuoco. Lavare la colpa è tornare all’origine, in un abbraccio rassicurante, pulito lavato come il quadro a cui lavora Elena – la fidanzata di Bruno (Valentina Cervi) – che cura, accoglie in silenzio, ama, si prende cura del suo Bruno.

Le immagini di Cappai sono quasi fisiche, attraversano lo spettatore. Talento già dimostrato nel mediometraggio So che c’è un uomo, dove la macchina da presa strettissima sui volti dei personaggi, li studiava chiusi nel loro ambiente familiare claustrofobico specchio dal luogo chiuso, piccolo e soffocante in cui vivono (un camper e uno squallido casolare arroventati dal sole in mezzo ai campi). Uomini chiusi in gabbia, quasi animali che si studiano, punzecchiano, si azzuffano con amore e rabbia sotto un sole soffocante che fa sudare i corpi.

Sudore, terra, sole. Gli elementi della natura, mai bucolica. Tutto è portato all’essenziale. I volti scolpiti dal calore (del sole o del fuoco), muscoli, l’espressione muta dei corpi e delle loro azioni. Indimenticabili Vitaliano Trevisan e Elena Radonocich. I suoni, le immagini, le sensazioni fisiche che vengono da queste immagini lasciano traccia. Eccome. Il cinema è come la vita, ti ci immergi, e ne esci attraversato. E Senza lasciare traccia (-e So che c’è un uomo) è Cinema (con la C maiuscola).

Fotografia sgranata, a tratti sfuocata, viva, corposa grazie forse anche al fatto di aver girato in pellicola. Sì una piccola curiosità – Senza lasciare traccia è l’ultimo film girato in pellicola in Italia. Scelta del regista anche se il film aveva una piccola produzione.

Ho potuto vedere questo gioiello fuori dal comune, al Detour di Roma (prezioso luogo) qualche sera fa seguito da un interessante incontro col regista. Segnalo che lo rifanno venerdì e forse a Marzo. Tenetelo d’occhio.

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