di Fabrizio Funtò/ Sono già qui.
Molti lo danno per scontato, loro sono qui. Tra noi.
Dodici navi spaziali aliene, come steli di Kubrik, scendono in verticale fin quasi a lambire il suolo del nostro pianeta, distribuendosi per i vari continenti. E stanno lì, ritte ed impalate, come gigantesche sculture di Brancusi.
Quindi il contatto? Già, ma come parla un alieno? Come comunichiamo con loro?
Già, ma come parliamo noi?
Primo cambio di prospettiva. Di fronte ad uno sbigottito e frettoloso Colonnello Weber [Forest Whitaker] comandante delle operazioni, e ad uno stupito fisico astronomico Ian Donnelly [Jeremy Renner] arruolato per interpretare la scienza e la tecnologia aliena, la linguista Louise Banks [Amy Adams] ― protagonista indiscussa di questo film ― rivela la complessità semantica del nostro linguaggio, contenuta anche in una banalissima frase: “Cosa siete venuti a fare qui sulla terra?”. That is the question.
Ed è questo il tema del film. Il linguaggio, che è il potere. È l’arma della mente. È l’architettura, l’intelaiatura logica attraverso la quale si strutturano e fluiscono i nostri pensieri. Non avessimo il linguaggio, non riusciremmo neanche a pensare. E la sua sostanza è appunto la logica.
Singolare che un film del genere ci raggiunga proprio quando uno dei massimi linguisti, un gigante nel panorama mondiale, Tullio De Mauro, ci ha invece appena abbandonati, da soli.
Dunque, come parliamo con gli alieni?
Qui ritorna l’aforisma di un altro grande, Ludwig Wittgenstein. Già perché chi si aspetta di trovare effetti speciali, spade laser, scontri fra fulminatori e scudi stellari rimarrà ampiamente deluso. Il film è metafora pura.
Ritorniamo al grande austriaco, a Wittgenstein. Sosteneva il filosofo che se un leone potesse parlare “nel nostro linguaggio”, vale a dire usando le nostre stesse strutture dialogiche per esprimere pensieri diversi, noi ne rimarremmo inorriditi e frastornati. Non lo capiremmo comunque. Troppo diverse sono le sue “attuali” strutture mentali, rispetto alle nostre. I suoi pensieri si alternerebbero in un vortice di pulsioni, istinti, frammenti di pensieri, ire funeste ed emozioni incontenibili ed incontrollabili, tutti in rapidissima successione ― strutture cui noi umani non siamo più abituati da millenni.
Il filtro linguistico è uno strumento raffinatissimo e complesso, terribilmente complesso. E terribilmente prezioso. E più una mente, un individuo, possiede padronanza linguistica ed è in grado di condurre sofisticati pensieri ― più la potenza del pensiero scorre nelle sue fibre fino a fargli vedere un mondo completamente diverso da quello che i comuni mortali, in fase di abbrutimento “di ritorno” o “funzionale” (come avrebbe sentenziato il grande Tullio) neppure percepiscono. Neppure riescono ad immaginare.
“6.43 Il mondo del felice è diverso da quello dell’infelice”. Questo è il Tractatus di Wittgenstein. Questo è il pensiero diverso. Ma gli alieni brancusiani, sono per caso felici? Che ci fanno dunque sulla terra?
Avvolti nel loro “fumus” vitale, e separati da una barriera che li confina nel loro acquario protettivo, gli eptapodi extraterrestri parlano emettendo fumo. E il fumo si ricompone in figure circolari bidimensionali arricchite da bardigli e frange sulla corona, che per gli improvvidi sceneggiatori del film diventano frasi, espressioni di senso complesso. Loro parlano così.
E dettano i compiti. Chi riuscirà a comprendere quel buffo ed intricato linguaggio? Ciascuna nazione che ospita gli astronauti alieni prova a comprenderli, e pian piano si comincia a venirne a capo. E’ vero che i linguisti sono bravi, ma come pronosticava anche il film, quelle strutture aliene richiederebbero anni per essere decodificate e riutilizzate secondo una sintassi appropriata. Qui l’iPad invece fa tutto al volo.
Ma lasciamo perdere, è un film… Si comincia a comunicare con loro, anche grazie ad una collaborazione costante planetaria, destinata presto ad interrompersi per le solite ragioni terrene. “Loro” parlano di un’arma misteriosa, ma non si capisce se la richiedano a noi o se ce la stiano offrendo. E, semmai, a quale scopo? Contro chi dovremmo utilizzarla?
Secondo cambio di prospettiva, e questo dovrebbe invece lasciare lo spettatore stupefatto. Sempre che lo riesca a capire.
Tu sei quello che pensi, come insegna il leone di Wittgenstein. Quindi, se impari un linguaggio alieno, inizi a pensare secondo le forme di quel linguaggio. Se il linguaggio è extraterrestre, cominci a pensare come loro. Quindi la tua mente evolve in senso alieno, ed anche le tue categorie mentali evolvono di conserva. Ed anche il Kant che è in te: spazio e tempo assumono una prospettiva completamente diversa. Inusitata.
Infatti, ciò che sembrava il “passato” ― il rapporto fra la protagonista e una figlia prematuramente deceduta, che costituisce la sequenza iniziale del film ― diventa e si disvela come il suo opposto.
Guardare il mondo con occhi diversi significa scoprirlo sotto una luce totalmente diversa. Aliena. Ah, se solo riuscissimo a pensare davvero in una maniera nuova, se solo potessimo riformulare i nostri pensieri ― così come le nostre emozioni ― che ci trattengono invece schiavi, ancorati alla nostra banalità quotidiana, come mirabili farfalle infilzate però nella bacheca di lepidotteri umanoidi…
Ecco, questo dovrebbe essere “lo stupore” cui il film vorrebbe condurci. L’inebriante piacere di vedere un mondo diverso, disposto al contrario rispetto a quello su cui farnetichiamo incessantemente, ci immergiamo ogni mattina, il mondo del lavoro (quando c’è) e della politica, il mondo di internet, il mondo della lotta quotidiana per la sopravvivenza; perfino il mondo dell’arte e della cultura, e il mondo del cinema.
Ma il vero messaggio ― di questo, come di moltissimi altri film sull’argomento ― (forse non ve ne siete neppure accorti) sta in realtà nella prima frase di questo articolo.