di Luca Spanu/Alcuni giorni di emozioni cinematiche al Detour di Via Urbana, grazie a corti e lungometraggi in concorso, a riflettere sul mondo, noi stessi, gli Altri. 12 corti, 6 lunghimetro, 1 videoclip (:Hello Josephine!! Time Flies When…*🙂 purtroppo concentrati in giorni tre, riportando a casa il segno e lo stimolo sensoriale multiplo di musiche colori piedi che camminano nel fango nella sabbia su sterrate e su asfalti, idee che percorrono un mondo senza pace.
*esilarante sincrodiacronico film di una vita o parte di essa, tra tuttagente e tuttiluoghi a sfondo ultrarapido spaziotemporale-tricologico, dallo skin-look allo aspetto di un giovane Dalì dai baffinsu, al ritmo di musica indiavolata. Chapeau!, davvero, al serbo Spasojevic.
Cominciando dal finale e dai corti, menzione di chi scrive per Fan iraniano (cura in apparenza antennistica in realtà tenerissima materna per il figlio malato), Dirty South francese (un silo cartazucchero punteggiato di finestre piantato in un deserto immobile di gialle stoppie ospita due sorelle che elaborano un lutto e guardano il mondo di spettrali coetanei contemplandolo o facendosene possedere), Made in Spain (doratosabbiosa delizia in ‘stop motion’, tra tori toreri nudisti bassoalti prelati oranti suore saltellanti e cantieri che fan buchi nel nulla) Red Light bulgaro (storia di un autista segregato da un guasto semaforico e segregante il suo variegato mondo trasportato, alla fine dal rossoverde di un’anguria affratellato).
I lungometraggi spaziano nel vero senso, scorrazzando per fiumi nordici o africani, villaggi e terre abbandonate o città metropolitane percorse in bicicletta o vissute suonate da ‘buskers’ animati da fuoco di passione. Ricordi e storie animate da musicisti di strada di duetto di ensemble o di palco, artisti che trascendono i limiti sensibili quando lesionati nei sensi fisiologici, culture che si incontrano e nei casi a molti noti prevaricano sui deboli, siano essi anziani, donne, bambini, giovani lasciati senza speranza di istruzione, di pace, di futuro.
In sala inoltre un confronto a distanza tra due registi poi premiati, che affidano anche all’acqua il compito di parlare all’uomo, dell’uomo, delle sue divisioni ideologiche, geopolitiche, sociali e culturali. Tides e Covered With The Blood Of Jesus (da uno sticker neoevangelico che spicca sulla carena di una barca a motore in corsa sul fiume Niger). Il fiume Foyle che attraversa Derry, NorthernIreland, la foce del Niger dal corso striato di correnti in superficie iridescenti avvelenate e punteggiato di oleodotti multinazionali che succhiano via il petrolio alla terra per lasciarne gli abitanti più poveri e desolati di prima, in balìa di governanti corrotti e avide multinazionali. Il piemontese Negrini ineffabile flaneur ‘Derry-residente’ presenta ‘super8 stories ’ di cattolici e protestanti visti nei loro rapporti con le acque del Fiume Giovane Donna Parlante, buie scure o verdi illuminate a guardare le case dal centro della corrente, case distanti e dagli acidi riverberanti colori e traversate esse acque da ponti che tagliano la superficie a celebrare una retorica pace politica che non impedisce la separazione sociale e culturale delle comunità un tempo in guerra civile, per tutti gli anni della formazione scolastica di fatto tenute separate e inconoscibili, vive solo nei sofferti luttuosi ricordi familiari; i sogni affondano nel melmoso fondale, si impigliano tra giunchi limacciosi, si spengono infine e scorrono via. Il calabrese Cotronei è alfiere di un rapporto tormentato con le ingiustizie del reale, con le sopraffazioni rese possibili ovunque dal censo e dalla struttura sociale piramidale, tesa a rinsaldare la ‘tirannia della culla’ che persino i teorici liberali si auguravano potesse ammorbidirsi nei ‘secoli nuovi’, la mancanza di istruzione invece a generare un difetto di cosciente autodeterminazione che in Africa e altrove subisce un postcolonialismo rapace. Entrambi i registi sul palco detouriano nel segno di una leggerezza che lascia parlare le acque con voce di giovanella il primo, di una maestrìa di ripresa e costruzione audiovisiva di antistorie il secondo, che vagheggia a partire dal proprio doloroso vissuto uno ‘stato di natura evoluto’ a metà tra la Cuba sociale e forse addirittura la Kirghisia scritta di Agosti regista, ove la istruzione libera ma sostenuta assecondata consente a tutti o quasi di coltivare aspirazioni estranee a spietati rapporti di forza e di potere.
Covered With The Blood Of Jesus non è un documentario e non è una cronaca soltanto di miseria, smarrimento, vita precaria schiacciata tra un fiume, fatiscenti appartamenti, università, speranze, bottiglie di plastica, innumerevoli, fatte per bere e poi per spillare petrolio da rivendersi a giornata.
Il film di Cotronei (regista autore nonché montatore, sonorizzatore, produttore di sé stesso) è una gemma visiva e narrativa, che accosta ma a colori il rigore b/n di Lav Diaz con i suoi ‘storm children’ e lo contamina con il nitore avvolgente delle immagini di un certo Malick, senza la di lui insistita dilatata spocchia autoriale. Trasfigurata e innalzata appare la vicenda di Richard nigeriano, che raccoglie bottiglie e piccole taniche di petrolio ‘espropriato agli espropriatori’, a garantirgli il necessario giornaliero per studiare e condividere un misero appartamento di città, alle porte di una università il cui viale di accesso si mostra fatto di una larga strada sterrata (destinata a diventare dunque oceano di fango quando arriva la pioggia .. come già mi colpì fosse quella di Ouagadougou in Burkina Faso[Terra degli uomini integri]); trasfigurata e individualizzata sovviene anche la diretta ricostruzione-reportage di Carmosino della rivoluzione ‘a piedi nudi’ in Burkina, ispirata dal verbo egualitario di Thomas Sankara, statista visionario e vero liberatore di poveri e uomini e donne del paese, morto giovane assassinato dal compare militare ora deposto (ma indenne ricoverato nella vicina Costavorio sotto la egida francese, le cui multinazionali drenano le risorse minerarie del paese).
Nel segno della musica e della forma espressiva libera e vitale, anarchico e liberatorio mezzo di emancipazione sociale e dai propri stessi limiti fisici e lotta agli integralismi, si fanno vedere e ascoltare poi tre film avvincenti: Mali Blues; il rutilante ritmatissimo Istanbul Makam – parlato in turco e inglese con musicisti di strada turco, francofona naturalizzata turca, turco-brasilo-canadese, italiano, ebreo-americano; il filosofico sperimentale Shoulder The Lyon, girato invece in paesi di lingua inglese, dall’Irlanda agli Stati Uniti.
Mali Blues – tedesco in lingua francese e lingue maliane – vive principalmente della figura sorridente e danzante, la voce splendida arrochita a tratti addolorata di Fatoumata Diawara, chitarrista solista e cantautrice maliana affermata fuori d’Africa, che ritorna al villaggio natale … e nella scena più toccante del film discorre con le ‘sagge mamme’ (a margine di una sua canzone) di infibulazione e ruolo della donna in ambito tribale tradizionale. Alla ‘Fatou’ dalle mille treccioline a volte danzanti e sorriso diastemico solare si affiancano nel ruolo di sé stessi un Ag Kaedi Chuck Berry tuareg in fuga dagli integralisti musicoclasti (un duetto ‘Ag-Fatou’ accosciato ‘rauco bruciato’ di chitarre e voci mozzafiato, è vero momento emozionante estatico-armonico del film), un MasterSoumy rapper giovanissimo scanzonato ma ‘impegnato’ nel denunciare l’islam radicale violento e proibizionista e la corruzione dei governanti, un Kouyaté omone di altra etnia ancora, musicista cantante ‘griot’ suonatore di ‘ngoni’, tribale strumento – antenato del banjio – rispetto a quello usato dal padre arricchito di corde e amplificazione (da lui apprendiamo sono 300/trecento le etnie presenti in Mali; un saggio vegliardo ribadisce altrove a Master Soumy che la tolleranza tra culture credenze e religioni, tra animisti, cristiani, mussulmani [atei, scettici?] è fondamento della civile convivenza).
Con Shoulder The Lyon il regista polacco cerca di offrire allo spettatore un complesso viaggio-immersione nello universo espressivo-artistico ‘posttraumatico’ di chi ha perso il senso Vista, le facoltà cerebrali del tutto per lunghi mesi/anni, il senso Udito ha compromesso da una grave forma di acufene degenerante. Sembrano dire, dicono : io non mi arrendo e anzi scopro nuovi significati e motivazioni personali e sociali e rappresentazioni del reale o dell’immaginario materizzato questi artisti che vanno oltre le menomazioni, queste donne e questo uomo che si riappropriano dello sguardo attraverso immagini mentali eppoi costruite e fotografate e filtrate dal racconto del linguaggio, delle pennellate e del lavorìo su materiali scultorei di risulta, della frequentazione organizzativa di festival musicali ove non possono più apparire, comporre, suonare.
Travolgentemente allegro e ritmato è invece Istanbul Makam, affidato ai pizzicanti archeggianti tambureggianti suonatori per le strade di Istanbul, città multietnica e multicolore, non privo il film (come la città) di parentesi riflessive e quasi dolenti sulla vita e sul destino delle persone che hanno scelto di fondere le proprie passioni aspirazioni con lingue e storie non solo musicali Altre da sé. Notevoli i duetti tra la giovine suonatrice di arco verticale turco e il baffuto più anziano mandolinista (sort of), ovvero tra il giovane violinista italiano e il maestro violinista di armonie turche : entrambi i duetti si chiudono con l’apprezzamento soddisfatto del Maggiore al/la Minore : “Brava/o, non hai dimenticato!! Curioso che un elogio alla memoria (non solo esecutiva ma storica) si rivolga a un giovane … segno forse che ricordare il passato in arte e cultura (ma anche altri campi dello scibile) è importante per chi ha vissuto pochi come cento anni, e si vede la conoscenza consegnare dopo millenni di storia, pensiero e pratici tentativi, a mo’ dei nani su spalle di giganti di agostiniana memoria (:appunto:)
Punto dolente a parer mio il cinese The Dog, ultraminimale sconnesso e statico, da parte di un regista molto giovane che avrà quindi tempo per crescere migliorando. Riprese con scene di lentezza esasperante, ora sgranate, ora fisse, ora fibrillanti, che lungi da effetto ipnotico generano piuttosto sconcerto e disturbo uditivo, come nella giaculatoria del giovane monaco-malcerto. Protagonista animal-conduttore un cagnolino, che si immerge in un mondo umano affannato e inquinato (una provincia cinese che vanta un PIL dollaromiliardario … come in benaltra latitudine problematica vantavano e vantano il ‘Veneto vs. PIL Portogallo’ de La lingua del santo di Mazzacurati e il ‘TappetoDaSalotto Cardinal VoiellOrlando vs. PIL paese africano del bimbo adottivo che vi gioca sopra’ – nel The Young Pope sorrentiniano), dove le figure sacre e profane si muovono con poca convinzione, a sé stesse e al regista inesperto abbandonate. Anche le riprese che vedono il canìno protagonista sono tollerabili e ispirano simpatia. Scena notevole affidata invece agli umani : la lettura in strada del destino nei segni e nella fisiognomica del richiedente.
In summa summata: una grandissima (quarta) edizione dell’OTRFF detourriano!! Che ci offre anche due bianconeri fotogrammomaggi al Maestro Mario Monicelli, nel corto-clip semi-promozionale di Chiara Rapaccini (in sala a premiare i Corti) titolato: Baires.
Grazie a Sergio, Cristina, Daniele, i/le traduttori, i/le registi, i/le giurati, gli/le spettatori, tuttetutti.
Intervista conclusiva di Termini.tv a Chantal Ughi, campionessa di thaiboxing Muai Thai. Essa compensa in parte il mio inestinguibile rimpianto per non essere stato presente in apertura del FF a Good bye Darling: I’m Off To Fight, girato da Simone Manetti in lingua inglese e thai.
In tale titolo molto azzeccato resta e si acquatta forse la cifra riassuntiva di questo riuscitissimo Festival dei viaggi dentro e fuori, sinestetici estatici.
Dare dire arrivederci alla care persone solo per combattere in adrenalinico confronto a sfidare i propri limiti anche, in nome di una idea superiore di eguaglianza, sereno appagamento … felicità condivisa in rispettosa (chi sa mai sia) convivenza e vicendevole imparare dai diversi.