di Giovannella Rendi / Quanti anni sono passati da quando la guerra civile in Irlanda è finita? Parecchi, frastornati da tante altre guerre in corso ce ne siamo dimenticati, così come del conflitto in Algeria e della sanguinosa guerra di camorra che hanno insanguinato i telegiornali degli anni novanta, così vicini e così lontani.
La guerra di liberazione irlandese è finita ufficialmente soltanto nel 2005 con la rinuncia ufficiale da parte dell’IRA alla lotta armata ma, come è accaduto anche per la RAF in Germania (fatti salvo i necessari distinguo tra i due fenomeni), questi atti portano a compimento un processo già innescato (in Irlanda con il Belfast Agreement detto anche Accordo del Venerdì Santo) e permettono l’inizio di una possibilità di storicizzazione e di riflessione sul passato. Oggi per noi si tratta di un periodo concluso, di cui ricordiamo ovviamente Sunday Bloody Sunday e il martirio di Bobby Sands (e di altri nove detenuti dopo di lui), che avrà ormai nell’immaginario collettivo per sempre il volto emaciato di Michael Fassbender in Hunger.
Che malgrado la fine delle violenze e degli attentati rimanga una profonda spaccatura tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, ce lo ricorda il documentario Tides ovvero Maree. Storie di Sogni e vite perduti e trovati (alcuni infranti) , presentato al Detour On The Road Film Festival. Documentario diretto da Alessandro Negrini, regista che da anni vive e lavora in un luogo anomalo e cruciale, a cominciare dal suo nome: Derry per i cattolici, Londonderry per i protestanti, una comunità su un lato, l’altra sull’altro, e in mezzo il fiume Foyle. Confine o tramite di due universi ancora profondamente conflittuali? Negrini si interroga senza fornire facili risposte e preferisce lasciar parlare il fiume, cui attribuisce sorprendentemente una voce femminile molto giovane, spiazzando lo spettatore, che invece si immagina un’anima antica e maschile.
La voce del fiume non ripercorre ma evoca, senza che mai la macchina da presa si lasci tentare ad esplorare cosa c’è al di là delle sue rive, limitandosi a mostrare in lontananza edifici dai colori acidi e allucinati che sembrano anche essi uscire dalle sue acque. Il fiume si interroga sulle barriere naturali o meno, sull’infanzia vista come mondo in cui il concetto di confine ancora deve svilupparsi, sull’incapacità degli uomini di seguire i propri sogni di pace e armonia con la natura. L’escamotage narrativo è interessante e soprattutto articola liricamente la decisione di incentrare tutto il film soltanto sull’elemento dell’acqua e dei ponti, visti di volta in volta come tramite tra le comunità o come qualcosa che tagliando il flusso dell’acqua, e quindi della natura, si colloca in una posizione anomala e innaturale. La decisione di far parlare il fiume è dunque poetica ma risente talvolta di una certa ingenuità, nel suo ostinato essere astorico. Più riuscita e interessante è la decisione di inserire, alternandolo alle riprese del fiume, bellissimo materiale d’archivio sia sonoro (a scandire i principali momenti politici della storia dell’Irlanda contemporanea) sia audiovisivo, quest ultimo proveniente da quelli che oggi si chiamano Home Movies, ovvero filmini privati di famiglia. Alcuni direttamente dedicati al fiume (ghiacciato su cui pattina un gruppo di amici, o in cui a sorpresa si infila un’orca marina che non riesce a uscire, altri a più o meno normali eventi di vita quotidiana, molti allo spirito di un tempo naif in cui il senso di unità non aveva un colore religioso ma solo la ritrovata felicità post bellica di essere ancora vivi.