di Giovannella Rendi/ Cosa sarebbe la vita senza Woody Allen? Speriamo di scoprirlo il più tardi possibile, intanto noi alleniani della prima ora (vabbè, la seconda ora, perché ai primissimi non eravamo ancora nati) continuiamo amorosamente e religiosamente a vedere i suoi film. Immancabili come le tasse, con scadenze più certe delle rondini che oramai non fanno più primavera, appaiono al festival di Cannes a maggio e si manifestano poi in Italia l’ultimo fine settimana di settembre. Glissiamo sulle recensioni festivaliere per non rovinarci la sorpresa ma l’occhio immancabilmente cade almeno sul titolo degli articoli e così ogni anno, come purtroppo da molti, la speranza del film di Woody Allen, il vero film di Woody Allen, atteso dai fedeli come il miracolo del sangue di San Gennaro, viene delusa. Poi arriva la visione autunnale in sala, rigorosamente in versione originale, e qualche volta va meglio di quanto sperato (Blue Jasmin, Magic in the moonlight), altre volte non si riesce a credere ai propri occhi (Vicky Cristina Barcellona, To Rome with love), in mezzo una serie di film che se le avesse realizzate un esordiente farebbero assai ben sperare. Film con una trovata divertente e originale all’inizio che però viene annacquata (Pallottole su Broadway, Hollywood ending), film a tesi più o meno esistenziale che si perdono in personaggi macchiettistici (Whatever works, Irrational man), film omaggio ai noir classici con sceneggiature a orologeria cui non riusciamo ad appassionarci (Match point), la sensazione è come se il regista perda l’interesse prima ancora di cominciare a girare.
Purtroppo (a parere di chi scrive, naturalmente) è dal 1991 che Woody Allen non è più Woody Allen, siano state o meno le sue drammatiche vicende personali e la decisione da allora (così si disse) di voler conquistare anche il pubblico americano e non solo i cinefili europei. Voglio solo che voi mi amiate, avrebbe detto Fassbinder. Ad interrompere il flusso di una produzione non proprio memorabile non a caso due pellicole come Harry a pezzi, in cui Allen torna a mettere se stesso al centro del film con spudorato narcisismo ma con grande onestà intellettuale, e Accordi e disaccordi, dove Allen non c’è e non viene sostituito da un personaggio simil Allen che ne imita male i tic, ma c’è una sceneggiatura dolceamara interpretata da due attori strepitosi come Sean Penn e l’allora sconosciuta Samantha Morton.
Woody Allen è egli stesso i suoi film e se le sceneggiature sono tirate via (sempre con almeno un paio di battute memorabili) anche il suo personaggio ne soffre. Wody Allen invecchia e diviene sempre meno credibile a fianco di partner sempre più giovani. Le donne sono fondamentali nei suoi film, e dopo aver avuto due muse meravigliose come Diane Keaton e Mia Farrow, e aver rivelato Dianne Wiest, la maggior parte delle interpreti successive non che non siano brave, ma semplicemente appaiono fuori parte, sia perché un film di Woody Allen non è per tutte, sia perché le figure femminili spesso divengono semplici oggetti amorosi bidimensionali (la più irritante, probabilmente Christina Ricci in Anything else).
È questo fondamentalmente il problema dell’ultimo dei mancati miracoli d’autunno, ovvero Cafè Society, opera numero 46, escludendo l’esperimento di Che fai rubi?. L’oggetto amoroso del protagonista Jesse Eisenberg, è purtroppo Kristen Stewart, un’attrice assolutamente inadatta a rappresentare la segretaria di un famoso agente di divi nella Hollywood anni trenta, sia come physique du rôle che come stile di recitazione. Malgrado il talento del suo coprotagonista, soprattutto nella prima parte, e una serie di comprimari di alto livello, malgrado la sincera dichiarazione d’amore per il cinema della sua infanzia e il mondo dorato che faceva sognare Cecilia- Mia Farrow in La rosa purpurea del Cairo, il film non riesce a decollare. Woody Allen ha il merito di sganciarsi dai facili escamotages narrativi dei film precedenti, e cerca di affidarsi ad una vicenda il cui fulcro sono soprattutto emozioni, equivoci, amarezze, sconfitte. Un tempo ci riusciva, perché Manhattan o Settembre altro non sono che vicende apparentemente semplicissime, quasi impalpabili, di persone infelici che si inseguono senza mai trovarsi, o si trovano quando è troppo tardi, si fanno del male senza volerlo e poi restano sole.
Privo di se stesso personaggio, privo delle sue attrici sempre meravigliosamente in bilico tra nevrosi, leggerezza e tragedia, Woody Allen deve in qualche modo puntellare il suo film e non gli rimane altro che citarsi addosso, riesumando i pranzi della famiglia ebraico-newyorchese, la yiddish mame che del figlio criminale deplora soprattutto la conversione al cristianesimo, la carrozza a cavallo a Central Park con la skyline di Manhattan corretta al computer per togliere i grattacieli più moderni, e anche la delusione del reincontrarsi cambiati che se non fosse per gli abiti d’epoca sembra proprio il finale di Crimini e misfatti. È un film per chi sa chi erano Joel Mc Crea e Irene Dunne, e in questo simile nello spirito a Ave Cesare! dei Fratelli Coen, ed è un film per chi ha amato i film di Woody Allen, parafrasando Stardus memories , i primi e non solo quelli comici.
Da fan della primissimora del Woody (e della postultima di Capuano), come il sangue di santo Gennaro liquefàssi, puntualmente a settembrottobre decido di non andare all’ultimo di W.. eppoi ci vo, nemmen restando poi tanto deluso (e anzi della colonna sonora ‘loopata sé bastante’ entusiasta – in Irrational Man).
Tanto la cura delle immagini delle riprese dei colori (con l’aiuto di tecnologia) si fa ineccepibile smagliante, quanto la scelta delle attrici, delle interazioni, dei plot si fa più fiacca, (auto)citazionistica con brio come nel Without Feathers citato da Giovannella, che nel titolo e in esergo rende un dissacrante omaggio alla rarefatta poetica di Emily Dickinson.
Di questo ultimo Suo mi par si possa dire che la voce narrante, molte volte in vari film usata, assurge a personaggio dominante, saggio onniscente osservatore-informatore dietro cui scintilla l’intelligenza e la ironica comprensione del regista.
E dirò anche che Blake Lively illumina esso film di luce prOpria. :))
Non so se la ammirazione di Capuano abbia inconsapevolmente diretto il Nostro Woo a sdebitarsi con le ultime inquadrature di Cafè Society, in cui (come L’amore buio faceva in alternanza) i primi piani di lei/lui vanno in dissolvenza di occhi, pur in LA/NYC affaccendati in un fin&capo di anno accompagnati dal motto “dreams are dreams” che tanto si lascia ammirare di per sé stesso. Curioson di vedere a questo punto, con la residuata produzione del Cap, anche il corto Pallottole su materdei : trasparente omaggio al Bullets Over Broadway pericolosamente allusivo alla vicenda umana del regista, che come il guardaspalle-Chazz Palminteri rivendica una comprensione se non una dignità assoluta per la morale superomistica dell’artista-creatore, solo in apparenza umano tra gli umani.
Vecchietti bizzarri e moltomamolto acuti il Cap e il Woo, le cui opere vorremmo ancora per tantanni ammirare.
Emily Dickinson was wrong. Hope is not the Thing With Feathers. The thing with feathers turned out to be my nephew. l have to take him to a specialist in Zurich. (WAllen, WF)